Dopo "Il pensiero molle" e "Il boom" pubblichiamo un altro racconto lungo
di Martino Fausto Rizzotti - Il
temporale si avvicinava e il torrente ingrossava a vista d'occhio.
Alle cinque del pomeriggio un argine cedette e un piccolo appezzamento di
terreno fu inghiottito dalle acque. Sulla collina che sovrastava il seminario,
un giovane che si riparava dalla pioggia con un sacco di juta scoppiò a ridere
"Gli sta bene - pensò - a quei pretacci", poi si gettò per la discesa pattinando nel
fango. Agitava una valigia verde. Dalla sua finestra al primo piano del
seminario Padre Padovan gli fece un cenno
di saluto. Il giovane rispose con un gesto osceno poi gridò:
"Pader,
lader! Paaaa-der laaaa-der!" e riprese la sua corsa verso la stazione.
Padre Padovan si
precipitò al suo inseguimento sibilando: "Brucerà nelle fiamme
dell'inferno!" ma quello era già scomparso. Arrivato in cortile il
gigantesco sacerdote scivolò e cadde in una pozzanghera. "Ah, - sospirò -
un tempo non mi sarebbe scappato, quel demonio, ma a
sessant'anni...".
Un tuono
fece tremare il seminario. Nella sua
stanza al secondo piano, Padre Richetti si allontanò dalla finestra e, fatti
due passi, allungò timidamente una mano verso la testa di un ragazzo
inginocchiato.
"Hai finito la penitenza?",
chiese.
"Sì" rispose il ragazzo.
"Adesso vieni qui."
Il Padre lo fece
sedere sulle sue ginocchia. "In te io vedo Gesù ". Lo baciò
sulla guancia e lo spinse via. "Va' a studiare! Corri!" poi si lasciò
cadere sull’inginocchiatoio e sospirò, sconvolto: “Madonna, aiuta il tuo fedele
servitore”. Un fulmine illuminò la collina, il tuono fece tremare i vetri delle
finestre. Si affrettò a chiudere le imposte. La luce si spense, si ritrovò al
buio. "Madonna, - pregò - accorri. Lo spirito è forte ma la carne è
debole...". Si sedette alla scrivania, abbattuto, sfiorò quasi con vergogna
il libricino che aveva redatto per i suoi figli spirituali, ad ogni pagina un
consiglio su come acquisire "nuovi abiti".
Padre Padovan si lavò le mani nel bagno dei
Fratelli, a pian terreno, poi salì al primo piano. Arrivato nella sua stanza si
cambiò la tonaca e s’inginocchiò. “O Signore, - pregò - proteggici dalla
cupidigia degli uomini, aiuta i tuoi soldati, perdona il tuo popolo attratto
dal mondo e dalle sue pompe". Tuttavia non riuscì a controllare la sua
ira: "Quel Nuccio! - rimuginava, -
un mezzadro ozioso, sfrontato che non esitava a gridare, davanti ai padri:
“A Nandoooo, fa mia sfòòòrs!” Incitava sfrontatamente i suoi colleghi all'ozio
e alla sedizione, lui, addirittura davanti ai suoi padroni! E mai che si
vedesse in chiesa! Tutta colpa dei parenti emigrati che, nel loro italiano
sgangherato, scrivevano: aperto 3 ristorante, gli inglesi... ci piacciono le
nostre cotolette d'agnello, vieni, qui lavoro buono.
Lettere che non
contenevano mai un soldo per la chiesa del villaggio, la loro chiesa, dove erano
stati battezzati, comunicati, cresimati soldati di Cristo, dove si erano
sposati, la loro chiesa che cadeva a
pezzi. Uomini di poca fede, abbandonavano l'onesto lavoro dei campi, lasciavano
la loro parrocchia deserta. Però fornicavano, ah, se fornicavano! Lo sapeva
bene lui, glielo cavava di bocca… “Però alla festa di S. Cristoforo, quei
pagani, questi adoratori del vitello d'oro mi sentiranno. Il loro parroco mi ha
invitato a predicare? Bene! Tuonerò come
Mosè contro gli ebrei colpevoli: “Siete idolatri, i-do-la-triii”. Si alzò,
raggiunse a tastoni la scrivania, aprì
la boccetta dell’acqua di rose, regalo di una devota francese, aspirò il
profumo ad occhi chiusi, rabbrividì, agitò il pugno: "Noi siamo soldati
del Papa! – disse con voce decisa. – Soldati in guerra. Ecco, la luce è
tornata, un segnale divino, senza dubbio. Al lavoro!" Si chinò sul canovaccio della predica che
avrebbe tenuto nella cattedrale di Notre Dame, a Parigi. La frase finale gli
piaceva in modo particolare: "Noi cattolici apostolici romani - recitava -
dobbiamo essere degli eroi!".
A metà collina, nella piccola frazione
raccolta attorno alla chiesa di San Cristoforo, Mario, un mezzadro del
seminario, socchiuse la porta di casa e stette in ascolto.
"Il treno è arrivato - disse. - Il
Nuccio ce l’ha fatta a partire."
Sua mamma, che
da una settimana non si alzava dal
letto, sospirò: "E' una grazia della Madonna".
Mario gettò uno
sguardo alla facciata della chiesa: "Ma guarda te, - disse - al San
Cristoforo gli è caduto giù il bastone”.
Chiuse la porta
e tornò a sedersi, impaurito. Era segno, pensava, che San Cristoforo non poteva più aiutarli.
Guardò i muri della stanza che fungeva da cucina e da camera da letto anneriti
dal fumo, sua madre devastata dal singhiozzo.
"Quest'inverno, dopo che uccidiamo il
maiale, ce ne andiamo ben anche noi, mamma", disse.
Lei non rispose;
stava pregando per il figlio appena partito per l’Inghilterra, per la figlia
che viveva in città; ad ogni Ave Maria un singhiozzo, una fitta allo stomaco.
Seduto al suo banco nel grande studio del
seminario il ragazzo osservava commosso i suoi compagni che, come lui, avevano
scelto l'ardua strada della dedizione a Dio, della rinuncia al mondo.
"Moriamo tutti al mondo per rinascere in Cristo" pensò, commosso.
Aveva tredici anni e un’immaginazione fervida. La furia del torrente sembrava
annunciargli una vita eroica. Aprì il quaderno sul quale i migliori studenti
della scuola media condividevano le loro riflessioni e scrisse: "Tutto di tutto. Che il Signore
ci dia la forza di donargli tutto di tutto". Richiuse il quaderno e
ripassò la poesia A Sirmione. Gli
piaceva molto ma pensava che lui, a differenza di Catullo, anche nelle più
sperdute terre di missione non avrebbe mai provato nostalgia di casa. Nostalgia
per il seminario… forse. La sua vera
casa era questa, solo qui si sentiva accettato.
Lo colse un bisogno urgente di
fare una visita a Gesù; chiese il permesso a Padre Tramonti, il prefetto dei
piccoli, uscì dallo studio e scese al primo piano. Sul pianerottolo si fermò ad
osservare il dipinto che rappresentava il drammatico sbarco in Giappone di S.
Francesco Saverio: una nave sballottata dall’oceano, mosso e livido, il cielo
scuro, il santo, gli occhi rivolti al cielo, che baciava la spiaggia, “Un giorno – pensò –
anch’io partirò per l'Estremo Oriente, e convertirò milioni di anime a Gesù.”
Sentì dei passi leggeri, alzò lo sguardo e intravide un'ombra. Gli sembrò di
riconoscere, nascosto dietro la ringhiera, il suo Padre spirituale. L'ombra
scivolò via, curva, lui fece velocemente pochi passi a sinistra – ai
seminaristi era proibito camminare nel corridoio del primo piano dove vivevano
i Padri - aprì la porta del coro e s’inginocchiò davanti all'organo. “Perché mi
segue?”, si chiese, sconcertato.
Il profumo familiare dell’incenso lo
tranquillizzò. “Mi sono sbagliato, forse non era lui,” pensò. Notò i fiori
freschi a fianco dell'altare, la luce delle candele riflessa dagli ottoni
lucidissimi, fratel Antonio, il
sacrestano, era là, inginocchiato a lato dell'altare, la testa fra le
mani; singhiozzava. Con i suoi capelli
biondi e ricci sembrava un angelo. Il ragazzo guardò il tabernacolo e salutò
Gesù. "Ciao, Gesù, - gli disse - hai visto come ti vuole bene fratel
Antonio? Con questo brutto tempo ha raccolto questi fiori meravigliosi.
Consolalo, poverino." S’immaginava un Gesù giovane e allegro tutto il
giorno in attesa di fare quattro chiacchiere con i suoi amici. "Non posso
stare qui molto, - gli disse - devo imparare A Sirmione a memoria Ma
tornerò presto". Sollevato, mandò
un bacio a Gesù e uscì. Aveva ancora le mani giunte e il collo reclinato quando
incontrò Padre Padovan. Il gigantesco religioso gli si parò davanti e esclamò,
sprezzante: "I colli torti non ci servono! Noi siamo soldati di Cristo,
sol-da-ti!". Gli voltò la schiena e se ne andò a grandi passi.
Il ragazzo
si sentì umiliato. Abbassò la testa, salì mestamente le scale e si diresse
verso lo studio. L'uscio della stanza del Padre spirituale era aperto ma,
appena il ragazzo gli si avvicinò, si richiuse. Turbato, il ragazzo cercò di
memorizzare la poesia senza riuscirci. Quando suonò la campana si mise in fila
e si avviò con gli altri verso il refettorio, in silenzio. Sulle scale un
compagno gli sfiorò un braccio, lui si ritrasse. "I toccamenti - pensò -
sono proibiti." Su questo punto il Padre spirituale aveva insistito molto,
ultimamente. Durante la cena Padre Tramonti, il prefetto dei piccoli, lesse
alcuni episodi della vita di S. Luigi Gonzaga. Quel Padre, giovane, non ancora
ordinato sacerdote, dall'espressione cordiale, era molto simpatico al ragazzo:
sapeva scherzare ma poteva essere anche molto serio, soprattutto quando parlava
di filosofia. "Gli esistenzialisti negano la realtà oggettiva! - aveva detto una volta, indignato. - Come se
non fossero nati da donna anche loro!" E un'altra volta: "I
protestanti, d'accordo, hanno contribuito allo sviluppo della democrazia, ma
non ci tocchino la Madonna !
Quella no!" e si era commosso.
Dopo cena, mentre giocava a calcio balilla
nello scantinato, il ragazzo fu
raggiunto da Padre Sartori, insegnate di musica.
"Vieni
- gli disse - andiamo a provare i canti per i fratelli”.
Nel
seminario c'erano cinque fratelli - cinque uomini che avevano fatto voto di
povertà, castità e ubbidienza, ma non avevano preso gli ordini sacerdotali. Si
occupavano dei lavori manuali. Dei sette sacerdoti presenti il più misterioso
era Padre Sartori non ancora quarantenne, bello, silenzioso, sempre assorto nei
suoi pensieri e nella musica; si diceva che scrivesse splendide poesie ma
nessuno le aveva mai lette. In attesa di essere sostituito da un novizio
svolgeva la funzione di prefetto dei ginnasiali.
I due si recarono nella piccola
cappella barocca riservata ai padri e ai fratelli, dove i seminaristi non erano
ammessi; padre Sartori si sedette all'armonium e disse:
"Domani mattina, per la festa dei
fratelli, ti sveglierò alle cinque e mezzo. Adesso canta sottovoce, i fratelli non devono sentire, sarà una
sorpresa."
Il ragazzo si schiarì la voce, Padre Sartori
aprì lo spartito.
"Prima questa, più facile. Attento agli
attacchi, - si raccomandò – conta, vai a tempo".
Il ragazzo intonò l'inno Laudate Dominum quoniam bonum.
"Bene, - commentò il Padre - adesso
proviamo Ai piedi della croce... Piano, sottovoce...".
Terminate le prove il Padre commentò:
"La voce c'è ancora. E' l'ultimo anno, però, poi diventerai tenore, forse
baritono. Domani mattina ti darò un cucchiaino di miele. I fratelli saranno
contenti della sorpresa".
La cena dei padri fu particolarmente spartana:
una minestrina e una crescenza acquosa. Padre Richetti mangiò molto pane senza
per questo sentirsi in colpa. Ricordava bene la regola 210 degli Esercizi
Spirituali, "per trovare in avvenire la giusta misura nel vitto" che
recitava: "Dal pane conviene astenersi meno, perché di solito per questo
cibo l'appetito non è disordinato e la tentazione non è forte come per gli
altri cibi".
Prima della
preghiera di ringraziamento il rettore informò i sacerdoti che l'Ordine lo
chiamava a nuovi incarichi. Sarebbe stato sostituito da Padre Colombo, più adatto di lui ad affrontare la difficile
situazione economica in cui si trovava il seminario, che le distruzioni causate
dal torrente stava rendendo ancora più precaria. La fuga dei mezzadri e la
violenza della natura ne minacciavano la sopravvivenza e, caduto il fascismo, i
donatori si erano fatti così rari...
Erano necessarie misure drastiche, spiegò, e capacità amministrative che
lui, un umile esperto in patristica, non possedeva. "Preghiamo." I
padri si alzarono, chinarono la testa e congiunsero le mani. Nel pronunciare la
preghiera di ringraziamento il rettore fu percorso da un brivido che gli scosse
la schiena, la sua bocca si riempì di
bava, la lingua gli penzolò fuori, contorta.
Padre Richetti era l'unico sacerdote
alloggiato al secondo piano, dove i ragazzi studiavano e dormivano. Il suo
compito di Padre spirituale gli imponeva di essere sempre a loro disposizione.
Adesso che i ragazzi delle medie inferiori stavano preparandosi ad andare a letto
e solo pochi ginnasiali erano ancora nello studio dei grandi, aveva finalmente
qualche ora per se stesso. Si sentiva in colpa: la sua paura della fame
dimostrava una mancanza di fiducia nella provvidenza divina. Un soldato di
Cristo come lui, robusto, che sprizzava salute, un camminatore
infaticabile - tanto da essere
soprannominato "Il camoscio" - non doveva avere simili cedimenti.
Doveva rafforzare il suo spirito con qualche buona lettura. Scelse un libro a caso e lesse: "Il primo peccato è quello degli angeli: su questo devo esercitare la memoria, poi l'intelletto, ragionando, infine la volontà... Devo dunque richiamare alla memoria il peccato degli angeli... - saltò qualche riga. - Dopo che Adamo fu creato nella regione di Damasco e posto nel paradiso terrestre, e dopo che Eva fu formata da una sua costola..."
Doveva rafforzare il suo spirito con qualche buona lettura. Scelse un libro a caso e lesse: "Il primo peccato è quello degli angeli: su questo devo esercitare la memoria, poi l'intelletto, ragionando, infine la volontà... Devo dunque richiamare alla memoria il peccato degli angeli... - saltò qualche riga. - Dopo che Adamo fu creato nella regione di Damasco e posto nel paradiso terrestre, e dopo che Eva fu formata da una sua costola..."
Non era
degli esercizi spirituali di S. Ignazio che sentiva bisogno. Aprì la raccolta
delle opere di S. Giovanni della Croce e lesse la più celebre delle sue poesie
mistiche, Notte oscura, nell'originale
spagnolo, una lingua che conosceva bene. Ah, come gli erano piaciuti gli anni
di studio in Spagna, come aveva trovato esaltante quella fede spontanea ed
entusiastica che esplodeva in processioni interminabili, coreografie
meravigliose, rapimenti estatici! Come si era commosso a Toledo, visitando la
fortezza dell'Alcazar, dove i cristiani avevano resistito agli assalti dei
comunisti! Resistito e vinto!
Avrebbe suggerito ai prefetti di leggere ai
ragazzi, durante i pasti, la cronaca di quella lotta eroica; sì, avrebbero
capito che la frase "perinde ad
cadaver", non era un modo di dire ma un modo di vivere! Si commosse
ricordando il famoso colloquio telefonico tra il colonnello Moscardò, il
difensore dell'Alcazar, e suo figlio Luis, prigioniero delle truppe
repubblicane. Lo conosceva a memoria: “Che succede, figlio mio?” “Niente.
Dicono che mi fucileranno se l'Alcazar non si arrende, ma tu non preoccuparti
di me”. “Se è così, figliolo, raccomanda l'anima a Dio e muori da spagnolo.”
Il
ticchettio ostinato della pioggia sulle persiane gli conciliò il sonno. Si
svegliò a notte fonda, confuso, la testa appoggiata alla scrivania. Aveva
sognato di essere una sposa addormentata sul petto del suo amato, aveva sentito
un forte profumo di gigli e una brezza tiepida accarezzargli i capelli.
Padre Padovan era seriamente preoccupato per
il futuro del seminario, soprattutto sul piano spirituale. Quel nuovo prefetto
- come si chiamava...? Ah, Moroni - atteso a giorni, lui l'avrebbe aborrito, se
un sentimento simile fosse stato lecito. Ma come!? Quello s’interessava di
teatro, di musica moderna, leggeva la Gazzetta dello Sport e non esitava a lodarne
l'insipida prosa. Certo, il sessantatreesimo paragrafo degli esercizi
prescriveva "di prender conoscenza del mondo…”, ma aggiungeva: “…
cosicché, detestandolo, possiamo tenerci lontano dalle vanità terrene!"
Per purificarsi da pensieri maligni recitò un'Ave Maria. Si diceva,
ad-di-rit-tura!, che quel Padre amasse il jazz, la musica del demonio e che -
quasi non bastasse - fosse molto legato al novizio Tramonti, altro soggetto
tutt'altro che pronto alla lotta contro la detestabile modernità.
Fortunatamente, prima che gli fosse concesso di prendere i voti, il giovincello
avrebbe dovuto affrontare la dura lezione della tomistica…
La sua devozione
alla Madonna, era genuina, la sua fede nei miracoli assoluta, d'accordo,
l’intelligenza notevole, ma quella sua infatuazione per la democrazia conduceva
dritta al protestantesimo e di lì... chissà dove. E quell'eccessiva indulgenza
nei confronti del piacere, poi! Qualcuno diceva di averlo visto tirare una
boccata di pipa nella stanza del fratello ciabattino. E Padre Richetti, con la
sua passione smodata per la poesia spagnola!? Come può un religioso così
ondivago, tormentato da fantasie assurde, orientare le fragili anime dei
seminaristi? Forse aveva sbagliato ordine. Quel suo colorito roseo, poi,
destava sospetti. Si flagellava qualche volta? Usava mai il cilicio? Non
sembrava.
La sostituzione del rettore, invece, aveva la sua piena approvazione.
Che lo seppellissero in qualche archivio, quel buon religioso malato, lo
curassero da quei brividi che lo coglievano nei momenti meno indicati –
addirittura alla consacrazione, mentre
voltava la schiena ai fedeli!, così che
tutti potevano vedere la sua schiena contorcersi come quella di un tarantolato! andiamo, via... - e
quella lingua che gli fuoriusciva improvvisamente, contorta, piena di saliva,
all’elevazione; orribile, orribile! Affezioni disordinate, la diagnosi non
poteva essere che quella: paragrafi 1, 97 e 169 degli Esercizi, se non
ricordava male. Certo, era un notevole esperto in patristica, ma poco
aggiornato sulle nuove tecniche computerizzate; si era impigrito,
evidentemente, oppure erano state le affezioni... Sì, padre Colombo era l'uomo
giusto, un amministratore competente, solido, in possesso di una fede operosa,
ottima famiglia d'origine, pratico, come la situazione richiedeva, abile.
Fin dai suoi primi esercizi spirituali Padre
Padovan aveva acquisito l'abito dell'esame particolare, ma dopo pranzo non ne
aveva avuto il tempo perché il rettore lo aveva invitato a colloquio. Erano
coetanei, si conoscevano dai tempi del seminario, vi erano entrati entrambi a
undici anni, durante la prima guerra mondiale. Il rettore gli aveva chiesto il
suo parere sui prefetti e lui non si era sottratto, aveva parlato con
franchezza. La sua intenzione era retta, perché si trattava di fatti pubblici e
perché c'erano buone possibilità di aiutare i giovani a migliorarsi - almeno
così sperava… - esattamente i due casi previsti dal quarantunesimo paragrafo
degli Esercizi, che lui conosceva a memoria.
Terminato il colloquio, i due
anziani padri erano rimasti ad osservare
la furia del torrente, in silenzio; lui, Padovan, gloriando in cuor suo Dio
onnipotente per le meraviglie della creazione, il rettore preoccupato per i
campi che la furia delle acque
trascinava a valle. Padre Padovan aprì il suo quaderno e si sforzò di ricordare
le azioni e i pensieri della giornata. Quella settimana si era proposto di
emendarsi dal peccato particolare della pigrizia. Fino a pranzo si era
comportato bene, nessun peccato, nessuna mancanza da annotare ma, mentre a
fianco del rettore osservava il meraviglioso e crudele spettacolo della natura,
si era lasciato vincere da un dolce torpore. Peccato di pigrizia! Segnò un
punticino sulla seconda linea. Si ricordò che, ripresosi dal torpore, si era
portato la mano al petto, come prescriveva la regola (“Prima "addizione", paragrafo
27esimo”, pensò compiaciuto), il rettore se n'era accorto e aveva sorriso. Una
vera debolezza la sua, imperdonabile! E nel pomeriggio, quando aveva incontrato
il ragazzo dal collo torto, non lo aveva redarguito con il necessario rigore!
Avrebbe dovuto parlargli chiaramente e più a lungo, avrebbe dovuto suggerire, a
quel sepolcro imbiancato, di chiudersi in gabinetto, prendere un bastone e
darsi qualche legnata sulle gambe.
Sì, col bastone che serviva a sturare il
gabinetto alla turca, meglio ancora se sporco, certo! Invece… il fatto che il
ragazzo avesse già un Padre spirituale, benché non un Padre spirituale esigente
come aveva avuto lui da ragazzo, lo aveva indotto a trattenersi. Segnò un altro
punticino sulla linea del pomeriggio. "Ho delegato ad altri il mio
dovere" pensò, sentendosi in colpa. Il suo difetto era indubbiamente la
pigrizia! Confrontando sul suo quaderno la prima linea, vuota, con la seconda,
si rese conto che durante la giornata era andato peggiorando.
Doveva
infliggersi una penitenza esterna, ma quale? Non poteva negarsi il vitto, avendo
già mangiato; inoltre non aveva ingerito
niente di superfluo - non ce n'era stata l'occasione - e il conveniente era già così risicato da
fargli rischiare - qui la regola lo confortava
- un indebolimento o un'infermità, quindi aveva mangiato sia la minestrina
che il formaggio e anche un po' di pane. Avrebbe potuto limitare il sonno, non
quello superfluo che non si concedeva mai - e non sarebbe stato comunque un
merito - ma il conveniente. Decise quindi di vegliare in preghiera fino all'una
di notte. Ma i peccati commessi, benché veniali, erano due, quindi aprì il
cassetto dell'inginocchiatoio, ne estrasse una catenella di ferro, si tolse la
tonaca, la camicia, la maglia, indossò il cilicio e soffrì fino al momento di coricarsi.
continua
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