viernes, 16 de febrero de 2018

Sicilia 1943: I "liberatori" riportano la Mafia


Resultado de imagen para sbarco usa in sicilia
Attilio Bolzoni - Gli americani erano arrivati in Sicilia in estate e avevano subito capito che era un luogo molto speciale. Al Quartier generale alleato di Algeri cominciarono però ad allarmarsi davvero verso l´inizio dell´autunno, quando decisero di spedire in missione a Palermo un giovane capitano dei servizi segreti: volevano un dettagliato rapporto «su un fenomeno che avrà gravi implicazioni per la situazione politica attuale e futura dell´isola e del resto d´Italia». Volevano capire cosa stava succedendo in quel pezzo irrequieto d´Europa liberata.

Il capitano W. E. Scotten contattò le sue fonti nelle province occidentali dell´isola e, dopo qualche settimana, inviò una relazione ai superiori: «A parte le opinioni popolari o gli aspetti politici, questo è un problema estremamente importante: tutti coloro che non ne sono venuti a contatto diretto però hanno serie difficoltà a valutarlo». Fu così che il capitano Scotten scoprì la mafia. E fu così che gli Alleati scoprirono che lo sbarco del 10 luglio del 1943 aveva riportato nell´isola non soltanto la libertà ma anche i suoi vecchi padroni: i boss di Cosa Nostra.

In quel rapporto che l´ufficiale della Military Intelligence inoltrò al brigadiere generale Julius Cecil Holmes – sei pagine custodite nei National Archives di Kew Gardens, alle porte di Londra – c´è la prova di un accordo cercato dagli agenti segreti statunitensi e britannici con la mafia siciliana. Uno dei primi, uno dei tanti. 

È un documento in cui si ritrovano le tracce di un negoziato fra gli apparati di sicurezza e le “famiglie”, probabilmente la genesi di un patto che porterà nel nostro Paese – decennio dopo decennio e strage dopo strage – all´abitudine “trattativista”, al dialogo permanente fra poteri politici e poteri criminali. Da Portella della Ginestra fino a Capaci, dalle spie inglesi agli uomini dei servizi di sicurezza italiani, un intrigo che affonda le sue radici nei mesi che seguirono l’Operazione Husky, nome in codice dell´invasione alleata dell´isola.

È la storia che sembra cronaca. Vicende lontane che si intrecciano con l´attualità più inquietante, le carte del passato che in qualche modo spiegano un presente ancora avvolto nel mistero: lunghe e indisturbate latitanze di capi mafiosi, covi immancabilmente protetti, complicità fra alti funzionari dello Stato e assassini, massacri di Cosa Nostra e depistaggi, bombe di mafia e di Stato.
 Il capitano W. E. Scotten sapeva già tutto in quell´autunno di sessantasette anni fa, quando – terminata la sua missione in Sicilia – cominciò a stendere il rapporto da consegnare al generale Holmes che da Palermo dirigeva le grandi manovre belliche sul fronte mediterraneo. Il dossier porta la data del 29 ottobre 1943 (cartella del Foreign Office 371/37327, numero di protocollo R11483) ed è stato archiviato a Kew Gardens alla fine della guerra.

Pubblicato per la prima volta dallo storico Rosario Mangiameli – nel 1980 – in “Annali della facoltà di Scienze politiche” dell´Università di Catania, oggi merita di essere riletto e interpretato per tutto ciò che sta affiorando in Italia sulle collusioni di Cosa Nostra. Oggetto del rapporto: «Memorandum sul problema della mafia in Sicilia». Sulla copertina del dossier, in poche righe ci sono le note di un funzionario del ministero degli Esteri inglese (la firma è illeggibile).

 Anche lui aveva ricevuto l´informativa di Scotten. Laconico il suo commento: «Il paragrafo 8 di questo rapporto sostiene che le attività della mafia sono risorte in maniera considerevole dalla data dello sbarco in Sicilia». Ma non era al paragrafo 8 il passaggio più riservato e tortuoso del resoconto di Scotten. Era al paragrafo 13, la parte del dossier che conteneva le «possibili soluzioni per affrontare il problema mafia». E dove, per la prima volta, compariva quella parola: negoziato.

Dopo un´analisi della realtà criminale siciliana, il capitano Scotten suggeriva al generale Holmes come il Governo militare alleato avrebbe dovuto muoversi. E valutava tre ipotesi: «a) un´azione diretta, stringente e immediata per controllare la mafia; b) una tregua negoziata con i capimafia; c) l´abbandono di ogni tentativo di controllare la mafia in tutta l´isola e il [nostro] ritiro in piccole enclaves strategiche, attorno alle quali costituire cordoni protettivi e al cui interno esercitare un governo militare assoluto». L´ufficiale della Military Intelligence riferiva poi ai suoi superiori, nel dettaglio, la praticabilità delle tre soluzioni prospettate.

Il primo punto è riportato al paragrafo numero 14: «La prima soluzione – il controllo della mafia, ndr – richiede un’azione fulminea e decisiva nell´arco di giorni o al massimo di settimane (…) e l´arresto simultaneo e concertato di cinque o seicento capifamiglia – senza curarsi della personalità e delle loro connessioni politiche – affinché siano deportati, senza alcuna traccia di processo, per tutta la durata della guerra (…)». Il secondo punto è al paragrafo numero 15.

Ed è tutto dedicato alla trattativa con i boss di Cosa Nostra. Scrive Scotten: «La seconda soluzione sembra apparentemente quella il cui successo è meno garantito. Ma la sua buona riuscita dipende dall´estrema segretezza di fronte ai siciliani e al personale stesso del Governo Militare Alleato».
 E aggiunge il capitano: «Dipende anche dalla personalità del negoziatore e dalla sua abilità nel conquistare la fiducia di questi capimafia da contattare sui seguenti punti: 1) l´unico interesse degli Alleati nel governare la Sicilia consiste nella continuazione dello sforzo bellico; 2) gli Alleati non desiderano interferire negli affari interni della Sicilia e desiderano restituirne il governo al popolo siciliano al momento opportuno;

3) gli Alleati acconsentono a non interferire con la mafia, a patto che questa accetti di desistere da tutte le attività riguardanti il movimento e il commercio di generi alimentari o di altri beni di prima necessità, oppure di prodotti che servono alla prosecuzione della guerra (…) e a patto che la mafia concordi nell´astenersi dall´interferire con il personale e le operazioni del Governo Militare Alleato».

Che cosa, americani e inglesi, avrebbero potuto offrire in cambio? Scotten non ha dubbi: «Questo significa l´accettazione a un certo grado, da parte degli Alleati, del principio dell´omertà, un codice che la mafia comprende e rispetta interamente». In sostanza propone ai superiori un armistizio con i boss: loro non «interferiscono» con gli affari del Governo militare, gli Alleati chiudono gli occhi su tutto il resto.
 
La terza soluzione ipotizzata dal capitano – ritirarsi in alcune zone della Sicilia e lasciare alla mafia il controllo del territorio – è giudicata dallo stesso ufficiale «debole» e «così da essere interpretata dal nemico [la Germania nazista], dal resto d´Italia e dagli altri Paesi occupati». Una via non praticabile per Scotten: «Ciò significherebbe consegnare la Sicilia per lungo tempo ai poteri criminali».
 Come poi sono andate le cose in Sicilia è noto. Gli Alleati non hanno abbandonato l´isola e non hanno mai deportato un solo mafioso. Al contrario. Molti capimafia sono stati i primi sindaci nei paesi della Sicilia liberata, altri boss hanno trafficato con i grandi capi del Governo militare alleato, gli aristocratici e i latifondisti legati a Cosa Nostra sono diventati i «rispettabili» signori che hanno governato l´isola subito dopo il fascismo.
 
Gli appunti del capitano Scotten raccontano molto di quella stagione. Sul ritorno dei boss: «I contatti da me sostenuti con la popolazione siciliana, concordano pienamente sul seguente fatto: la mafia è rinata. Tale fenomeno non è sfuggito alla sezione Intelligence del Governo militare e all´inviato speciale del Dipartimento di Stato Usa Alfred Nester, ex console americano a Palermo (…) Il terrore della mafia sta rapidamente tornando e, secondo i miei informatori, la mafia si sta ora dotando di armi ed equipaggiamenti moderni, il problema si moltiplicherà creando difficoltà alla Polizia».

Sulla capacità corruttiva di Cosa Nostra: «La popolazione siciliana non crede che i carabinieri o gli altri corpi di polizia siano in grado di affrontare la mafia. Li ritiene corrotti, deboli e, in molti casi, in combutta con la stessa mafia. Carabinieri e polizia ricevono individualmente una parte dei guadagni dei vari racket, ma anche intere porzioni di questi introiti».

 Sulle infiltrazioni nel Governo militare alleato: «Molti siciliani si lamentano del fatto, ed è la cosa più inquietante, che molti nostri interpreti di origine siciliana provengono direttamente da ambienti mafiosi statunitensi. La popolazione afferma che i nostri funzionari sono ingannati da interpreti e consiglieri corrotti, al punto che vi è il pericolo che essi diventino uno strumento inconsapevole in mano alla mafia».

Alla fine del suo rapporto, il capitano della Military Intelligence descrive il clima che si respira nell´isola negli ultimi mesi del 1943: «Agli occhi dei siciliani, non solo il Governo Militare Alleato non è in grado di affrontare la mafia, ma è arrivato addirittura al punto da essere manipolato.

 Ecco perché al giorno d’oggi molti siciliani mettono a raffronto il Governo Militare Alleato e il Fascismo… Sotto il Fascismo la mafia non era stata interamente debellata, ma veniva almeno tenuta sotto controllo. Oggi invece cresce con una velocità allarmante e ha raggiunto addirittura una posizione di rilievo nel Governo militare alleato».

Qualcuno avrà mai risposto per iscritto al capitano Scotten? In qualche scaffale di Kew Gardens si ritroverà mai un´altra carta con le decisioni prese dagli Alleati «per risolvere il problema della mafia»? Basterebbe qualche foglio ingiallito, basterebbe anche una sola pagina per scoprire fino a dove si è spinta la «soluzione B» proposta dall´agente segreto Scotten in missione in Sicilia.

Vedi anche
 http://selvasorg.blogspot.com/2017/03/italia-contributo-della-mafia-allo.html

  fonte: 

www.storiainrete.com il 17 marzo 2010
“la Repubblica” del 17 marzo 2010

No hay comentarios:

Publicar un comentario