lunes, 11 de marzo de 2019

L’ABC sulle minacce di invasione al Venezuela che i media non spiegano

di Anika Persiani
Il Governo degli Stati Uniti ha vissuto, nel mese scorso, lo Shutdown più lungo della storia, lasciando 800 mila dipendenti statali senza stipendio. Oltre ai senza tetto, ai “roulottari” e a coloro che vivono nelle fognature. Il governo degli Stati Uniti, da diversi anni, vuole risolvere il problema della povertà in Venezuela, paese dove – dice Trump – la gente vive con pochi dollari al mese per colpa di un tizio – Nicolas Maduro – che vuole sterminare il suo popolo. In Colombia c’è un altro tizio, venezuelano, di nome Juan Guaidó. Juan Guaidó è uscito da
pochi giorni dal suo paese, del quale sostiene di essere Presidente dopo essersi autoproclamato tale, a bordo di un elicottero delle Forze Armate Colombiane per andarsi a fare un giretto oltre confine. È da precisare che Colombia e Venezuela hanno rotto pure i rapporti diplomatici, ufficialmente.

L’appendice della storia che dura da diversi anni, si è iniziata a scrivere il 23 gennaio scorso quando, proprio in mezzo di strada, il passeggero della Forza Aerea Colombiana ha preso in mano la Costituzione della Repubblica Bolivariana del Venezuela ed ha giurato come Presidente, montando addirittura su un palco allestito con tanto di altrettanti signori in attesa del conferimento di un potere. Roba che manco in Pocahontas.

A Caracas, però, non si è smosso niente e le legittime istituzioni continuano ad essere istituzioni legittime.

L’autoproclamato ha passato queste settimane chiedendo all’esercito di obbedire a lui come nuovo comandante in capo, ricevendo in cambio, tecnicamente, una pernacchia strategica; ha continuato a giocare un gioco non propriamente suo, chiedendo nuovamente aiuto a quei militari delle Forze Armate Venezuelane, cercando di incontrarli e convincerli a tradire quell’altro Presidente, quello eletto il 20 maggio scorso che siede nel Palazzo di Miraflores, offrendo loro di tutto. E, davanti ad un ennesimo NO, è poi arrivato a dipingerli come corrotti e criminali nelle sue dichiarazioni davanti alla Comunità Internazionale. 

No, non è finita qua: in una sorta di corner, last minute, quando si è reso conto che il suo gioco era squilibrato e che chi gli aveva disegnato lo schemino si era sbagliato di brutto, ha proposto, sempre ai militari, addirittura un’amnistia. Amnistia per cosa, non si è capito. E siccome anche ‘sti soldati, patrioti, non hanno capito per cosa avrebbero dovuto esser assolti e, soprattutto, da chi, gli hanno fatto un’ulteriore pernacchia, dichiarandosi fedeli alla patria ed al governo di Caracas.

 Il ragazzotto perso, ma proprio perso, è quindi arrivato a chiedere alla macchina bellica statunitense di attaccare quello stesso esercito con il quale aveva tentato di trattare per farsi riconoscere come legittimo Presidente, al posto di quell’altro che, come abbiamo detto, siede nel Palazzo di Miraflores. Come nella migliore scenografia di un film hollywodiano.
Pare sia una sorta di moda autoproclamarsi, per i venezuelani. 

Da quel che si è saputo, anche un gruppo di pellegrini, nel bel mezzo di una cena in un ristorante chic di Miami, si è autoproclamato Tribunale Supremo di Giustizia del Venezuela; un senatore degli Stati Uniti si è autoproclamato Capo delle Forze Armate Venezuelane, arrivando pure a minacciare le stesse Forze Armate delle quali voleva diventare leader; un segretario dell’Organizzazione degli Stati Americani (OEA) si è autoproclamato Ambasciatore del Venezuela e lo stesso Segretario Generale del suddetto organismo si è autoproclamato Presidente di tutti gli stati membri, dicendo che il governo di Caracas era stato espulso dall’Assemblea dell’OEA. Ora: essendo la stessa Organizzazione degli Stati Americani composta da 35 stati, per escludere la Repubblica Bolivariana del Venezuela dalla confederazione, si sarebbero dovuti avere 24 voti favorevoli alla sua espulsione. Ce ne sono stati solo 18 e l’Ambasciatore che rappresenta Caracas, Samuel Moncada, continua a sedere sulla stessa sedia, a parlare ed illustrare (anche molto bene) il tentativo di colpo di Stato, non riuscito. Il resto, cicce. 

Ma in tutto questo caos non dobbiamo perdere di vista il punto, ossia: il Governo degli Stati Uniti è “amico” della Colombia e la aiuta in base agli accordi fatti dai Presidenti che si sono succeduti e, per questo, gli aiuti umanitari li manda via terra invece che via mare, nonostante Caracas vanti uno dei porti commerciali, quello della Guaira, abituato a mercantili di consistenti dimensioni, ed un aeroporto internazionale, scalo fondamentale per il traffico aereo dell’America Latina. 

La Colombia è uno dei paesi con il più alto tasso di mortalità infantile, di analfabetismo e di delinquenza e, guarda caso, è l’icona degli interessi di famiglie ‘ndranghestiste e dei cartelli della droga ed ha ben 8 basi militari statunitensi. Ed una posizione geografica, come il Venezuela, che è un regalo lasciato dalla deriva dei continenti; osserva due mari, due fronti continentali a nord e a sud, e perfino il traffico commerciale di Panamá, pochi chilometri a nord. E controllerà quello futuro, che si svilupperà nel Canale che si sta costruendo in Nicaragua grazie agli investimenti cinesi, e che cambierà, non poco, le regole del commercio internazionale. 

Il Governo degli Stati Uniti critica un paese che, da sempre, nei peggiori Bar di Caracas e nei peggiori barrios (sobborghi tipo favelas), oltre a bere il Rum Pampero, vede persone che si prodigano a raccattare gli scarti di cibo dai cassonetti delle zone “Inn” metropolitane o a spararsi il fine settimana, secondo il cliché importato del Far West che non era propriamente parte del bagaglio culturale degli indigeni locali, più avvezzi ad accordarsi per contrabbandare oro e minerali in una sorta di prostituzione verso gli Stati Coloniali.
Come, del resto, succede in tutte le megalopoli latinoamericane e nordamericane che, già dagli anni venti, sono esplose demograficamente e non hanno importato propriamente architetti, medici o Professori di antropologia. 

Con tutti questi problemi continentali, quello più importante pare essere Maduro. Un presidente che, a sua volta, ha a che fare con soggetti di svariata natura che girano con bombe carta che costano qualcosa come venti dei loro stipendi, che passano giorni e giorni per strada a manifestare lamentando il fatto che i figli non hanno di che campare. Ecco, con tutto il rispetto per la storia sindacale europea, c’è da chiedersi: ma questi qua, in piazza per mesi e con i figli che muoiono di fame in casa, come portano un piatto di riso ai loro cari se stanno, belli e determinati, nelle piazze ad incendiare edifici ed autoveicoli? Sono veramente dei genitori così “snaturati”? 

I loro datori di lavoro gli fanno qualche speciale contratto che non prevede il licenziamento per assenza continua dal posto di lavoro? Il Governo li sussidia in qualche modo per farsi massacrare, oppure qualcuno li paga di più di quello che guadagnerebbero presentandosi, ogni mattina, dietro ad una scrivania, ad un banco di vendita o in una fabbrica? Oppure hanno risorse economiche date da quella speculazione che, per anni, hanno fatto sulla moneta locale, che gli permette di non aver bisogno di darsi da fare per procurarsi quel cibo che dicono manchi nel paese?

Ma, agli occhi del mondo, questi signori sono i poveri che gridano contro un signore baffuto di nome Nicolás Maduro; peccato che i poveri siano quelli che scendono con le bandierine e le magliette rosse e che, da questi governi che si sono succeduti, composti non proprio da luminari dell’economia, qualche vantaggio come le case popolari, l’assistenza sanitaria gratuita (seppur con una grossa crisi per l’assenza di farmaci e ricambi per i macchinari ospedalieri che sono soggetti a sanzioni internazionali), gli studi superiori accessibili a tutti e qualche altro vantaggio, lo abbiano avuto. 

Per carità, non è che il governo del Partito Socialista Unito del Venezuela sia l’icona dello sviluppo economico, diciamo pure che di errori, mi pare evidente, ne commetta abbastanza e ne abbia commessi, in questi anni, anche di molto gravi. A partire dalla mancata produzione di generi di prima necessità e allo sviluppo di un’economia basata sempre e solo sui barili di petrolio da esportare. Ma perché, se nel paese già ci sono gravi disagi, li si devono accentuare sanzionando persone tanto povere per farle morire, in nome del diritto internazionale? Perché questa tecnica assurda, che prevede la sofferenza di milioni di persone, che si chiama politica delle sanzioni economiche?

Comunque, per tornare a quel tizio di nome Juan Guaidó, c’è da dire che il Governo USA lo ha prontamente riconosciuto. E questo perché ha studiato proprio alla George Washington Accademy, si è formato sotto le ali protettrici di uno di quegli stessi signori che stanno a capo del Fondo Monetario Internazionale, una di quelle istituzioni che le sanzioni le formulano, le applicano e le portano avanti come sistema bellico: un economista venezuelano, sconosciuto ai più, di nome Luis Enrique Berrizbeitia. 

Il Fondo Monetario Internazionale che, negli ultimi anni, non ha mai espresso nessun disappunto mentre centinaia di migliaia di venezuelani con doppio conto corrente (dei quali uno venezuelano ed un altro a Miami, Panama, Madrid, Madeira, Toronto, Bogotà e mille altri posti ignoti della terra), speculavano sulla loro stessa moneta (il Bolivar), applicando la vecchia pratica dei cambisti a nero, favorendo la svalutazione monetaria e arricchendosi sempre di più. Con tasso di cambio stabilito sulle pagine web di Monitordolar.ve o di Dolar Today, maneggiate (apparentemente) da misteriosi signori. 

Praticamente, volendo cambiare cento dollari in bolivares, si pagava una commissione più o meno del 10 per cento (quando si trattava solo di trasferimento bancario), per arrivare al 40 per cento, nel caso si volessero acquistare dei soldi in contanti. Un accumulo di divisa estera che diventava una riserva di valore immensa ogni qual volta si ri-svalutava la moneta venezuelana. Una riserva che consente, ad oggi, di comprare appartamenti, risorse energetiche, materie prime e pure pezzi di paese, a chi la detiene.

Ecco. Questi misteriosi signori sono quelli che manifestano nelle piazze, da almeno 6 o 7 anni, accusando il governo di non fare l’interesse del popolo perché non li lascia trafficare con le loro compravendite di prodotti che poi ributtano sul mercato a prezzi più che decuplicati rispetto al costo di produzione. Chiaro: il Venezuela è ancora uno stato capitalista, soggetto all’economia di mercato. E se si hanno i soldi per comprare enormi quantitativi di prodotti, in una economia di mercato, nessuno lo può proibire.
C’è da ribadire mille volte che il Venezuela non è paese socialista con i burocrati socialisti che controllano un’economia pianificata, è uno stato capitalista che sta cercando di fare le riforme per diventare socialista.

I poveri venezuelani, quelli invisibili che, nel frattempo, in questi anni, si sono iscritti ad un’anagrafe, hanno avuto un’identità, vogliono una prospettiva che non è rimasta solo quella di coltivare papaya o di fare gli sciuscià nei centri cittadini.
I poveri venezuelani sono arrivati a dire la loro, attraverso un semplice meccanismo democratico che si chiama elezione. Ed hanno eletto, fra i 6 candidati dei 16 partiti che si sono presentati il 20 maggio scorso alle elezioni anticipate (volute dall’opposizione), Nicolás Maduro. 

In un paese dove, in venti anni, ci sono state venticinque chiamate alle urne e dove, fino ad oggi, pare che nessuno avesse mai lamentato niente, i risultati sono stati:
Maduro 67,84% Henri Falcon (oppositore dell’Avanzata Progressista) 20,93% Javier Bertucci (come indipendente) 10,82% Reinaldo Quijada (dell’UPP89) 0,39%
Gli altri due (Luis Ratti e Visconti Osorio) hanno ottenuto numeri da prefisso telefonico. 

Ecco: dato che la matematica non è un’opinione, in queste percentuali, dovremmo collocare la quantità dei voti dei seguaci del Signor Juan Guaidó, che sostiene di avere la maggioranza assoluta nel paese. Sicuramente ce l’ha: all’estero, dove i venezuelani, o i venezuelani oriundi, vogliono la testa di Maduro. E si fanno sentire, forte, anche per la loro possibilità economica di sviaggiare in lungo ed in largo per il globo terrestre (possibilità che i poveri non hanno) per dialogare con i governi e con gli stati che in Venezuela metterebbero ben volentieri le mani sulle riserve petrolifere e minerarie. Governi che pressano per il riconoscimento del ragazzo della George Washington Accademy e dei corsi fatti, da Belgrado a Langley, per fomentare rivoluzioni colorate e prendere il potere. 

Ma la cosa da non dimenticare, soprattutto in Italia (paese che vanta il maggior numero di migranti nel paese caraibico), è che coloro che vanno ascoltati e tutelati sono gli italiani residenti oltreoceano e non i venezuelani residenti nel nostro bel paese. Attenzione: gli italiani, non gli oriundi con doppia cittadinanza che, come spiegato qualche paragrafo prima, hanno doppio conto corrente e hanno tutto l’interesse a speculare sul cambio monetario. E il nostro paese, per primo, non dovrebbe permettere le ingerenze degli altri governi in un processo di trasformazione economica che solo in Venezuela, i cittadini ed i residenti, hanno diritto di scegliere o revocare. Giusto o sbagliato che sia.

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