I segnali della crisi del Capitalismo, della sua vecchiaia irreversibile sono clamorosi: la cosiddetta "cancellazione delle ideologie", una verità parziale e l'ascesa di uno scetticismo menomato, di un pragmatismo a-teorico con quel che comporta in termini di rinuncia al pensiero (non-pensiero), di prostrazione dell'immaginazione critica e dell'impulso creativo; l'esaurimento di tutte le arti e l'anemia della produzione culturale; l'astensionismo politico e un discredito della dinamica elettorale difficile da nascondere; l'invasione della povertà; la certezza di un collasso ecologico che può essere solo posticipato; eccetera.
Negando l'evidenza di questa crisi, si direbbe che i pensatori ex-contestatori facciano propria, realmente, una prospettiva di fine della storia, come se la nostra civiltà fosse stata premiata con l'onorificenza dell'eternità e il nostro Sistema costituisse la realizzazione perfetta della Ragione, la meta verso cui, con ostinazione, si incammina l'Umanità; come se non sopravvivesse da nessuna parte il seme di una alternativa (anche se ciò fosse vero, non si potrebbe ricavarne un certificato di buona salute del capitalismo: le culture iniziano a morire prima che venga rivelato il volto del loro erede, prima che si profilino i contorni delle civiltà che le sostituiranno), come ci rimanesse solo un compito, un esercizio plausibile, una dedizione rispettosa: prenderci cura dell'esistente, ripararlo, aggiustarlo, universalizzarlo.
Commettono, dunque, lo stesso errore in cui incappò il Comunismo: immaginare di aver già attraversato la soglia del Paradiso e che finalmente sia giunta l'ora di abilitarlo e difenderlo; sognare che la storia, avendo dato il suo frutto (il liberalismo globalizzato), la smetta di procuraci dei fastidi, di darci degli scossoni.
Probabilmente stiamo arrivando davvero alla Fine; ma non alla "fine della storia", quanto ai rantoli di una civiltà incredibilmente presuntuosa, pateticamente innamorata di sé.
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