Fabrizio Lorusso
Dopo sei anni di crescita significativa si calcola una caduta del PIL dei paesi latino americani considerati nel loro insieme dell’1,7% e del PIL pro capite del 2,8% per l’impatto della crisi internazionale. Ciononostante si considera che dalla metà dell’anno è iniziato un recupero lieve che dovrebbe continuare nel 2010.
La caduta del tasso d’occupazione e anche della qualità delle fonti d’impiego è il corollario della crisi in tutti i paesi anche se il Messico, i paesi Caraibici e l’America Centrale stanno risentendo maggiormente della diminuzione del turismo (anche per l’effetto “influenza suina o A H1N1″), delleminori rimesse inviate dai loro migranti negli Stati Uniti e dalla caduta degli investimenti stranieri stimata in un 37%.
Storicamente i paesi dell’America Latina si sono potuti suddividere per blocchi in base alla dipendenza commerciale relativa dagli Stati Uniti che è sicuramente un fattore importante da considerara ancora oggi dato che la crisi ha avuto origine proprio in quel paese e continua a influire sul continente americano e sul mondo intero.
Il Messico e il Centroamerica hanno una dipendenza commerciale intorno o superiori al 70% con gli Stati Uniti (calcolando la percentuale delle importazioni e delle esportazioni con gli USA rispetto al totale nazionale), i paesi andini come il Venezuela, la Colombia, l’Equador e il Perù si definiscono a dipendenza media con tassi di circa il 50% mentre il Brasile e i vicini argentini e cileni del Cono Sud hanno percentuali tradizionalmente inferiori al 50%.
Il fattore Cina negli ultimi dieci anni è venuto a cambiare queste percentuali e s’è trasformato nel secondo partner commerciale della regione e, in alcuni casi, nel leader commerciale assoluto per alcuni paesi. Anche l’Unione Europea, soprattutto la Spagna, hanno ampliato la loro presenza in Latino-America in termini commerciali e di investimenti diretti. Basti pensare alle banche come Santander o BBVA, alla compagnia Telefonica oppure alle imprese del settore energetico come Repsol e Gas Natural.
Questa relativa diversificazione non ha però condotto a benefici sufficienti per evitare la discesa della produzione interna, delle esportazioni e del consumo nel 2009, anzi, la relativa dipendenza da pochi prodotti e dalle materie prime, dilemma storico delle economie del sottocontinente, unita ai flussi speculativi e la scarsa forza dello Stato nella politica fiscale e finanziaria.
In pratica per il sesto decennio consecutivo e ancora in questi giorni la CEPAL (Commissione Economica per l’America Latina e i Caraibi dell’ONU) segnala che, malgrado la crescita attesa del 4,3% del PIL nel 2010 per la regione e tassi ancora più alti per il Sudamerica in cui il Brasile fa da traino, i problemi strutturali non sono stati risolti e che oltre ad economie sane a livello macro c’è un gran bisogno di recuperare l’investimento statale (il più efficacemente possibile) in politiche sociali, redistributive e nel welfare abbandonato da due-tre decenni a questa aprte all’iniziativa privata, delle ONG o della società civile e del volontarismo che a dir la verità ha dei limiti strutturali piuttosto evidenti da questa parte dell’oceano (e non solo?).
Tra i grandi paesi il Messico esce indebolito dato che l’attività economica interna è crollata più che in altri paesi per la sua dipendenza dagli USA e l’effetto influenza e avanzerà probabilmente poco più del 3% l’anno prossimo, quindi meno degli altri grandi come il Brasile (+5,5%) e l’Argentina (+4%) e della regione nel suo insieme.
Anche in Messico lo Stato sembra avere perso gli strumenti per stabilire delle politiche controcoincliche significative, per favorire la diversificazione di prodotti e mercati, per incorporare e generare conoscenze e tecnologie e, infine, per prevenire e affrontare le crisi in un intorno di sviluppo economico e sociale sostenibile, tutte misure e prospettive auspicate e raccomandate fortemente dalla stessa CEPAL.
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