di Anika Persiani
Il Governo degli Stati Uniti ha vissuto,
nel mese scorso, lo Shutdown più lungo della storia, lasciando 800 mila
dipendenti statali senza stipendio. Oltre ai senza tetto, ai
“roulottari” e a coloro che vivono nelle fognature. Il governo degli Stati Uniti, da diversi
anni, vuole risolvere il problema della povertà in Venezuela, paese
dove – dice Trump – la gente vive con pochi dollari al mese per colpa di
un tizio – Nicolas Maduro – che vuole sterminare il suo popolo. In Colombia c’è un altro tizio,
venezuelano, di nome Juan Guaidó. Juan Guaidó è uscito da
pochi giorni
dal suo paese, del quale sostiene di essere Presidente dopo essersi
autoproclamato tale, a bordo di un elicottero delle Forze Armate
Colombiane per andarsi a fare un giretto oltre confine. È da precisare
che Colombia e Venezuela hanno rotto pure i rapporti diplomatici,
ufficialmente.
L’appendice della storia che dura da
diversi anni, si è iniziata a scrivere il 23 gennaio scorso quando,
proprio in mezzo di strada, il passeggero della Forza Aerea Colombiana
ha preso in mano la Costituzione della Repubblica Bolivariana del
Venezuela ed ha giurato come Presidente, montando addirittura su un
palco allestito con tanto di altrettanti signori in attesa del
conferimento di un potere. Roba che manco in Pocahontas.
A Caracas, però, non si è smosso niente e le legittime istituzioni continuano ad essere istituzioni legittime.
L’autoproclamato ha passato queste
settimane chiedendo all’esercito di obbedire a lui come nuovo comandante
in capo, ricevendo in cambio, tecnicamente, una pernacchia strategica;
ha continuato a giocare un gioco non propriamente suo, chiedendo
nuovamente aiuto a quei militari delle Forze Armate Venezuelane,
cercando di incontrarli e convincerli a tradire quell’altro Presidente,
quello eletto il 20 maggio scorso che siede nel Palazzo di Miraflores,
offrendo loro di tutto. E, davanti ad un ennesimo NO, è poi arrivato a
dipingerli come corrotti e criminali nelle sue dichiarazioni davanti
alla Comunità Internazionale.
No, non è finita qua: in una sorta di
corner, last minute, quando si è reso conto che il suo gioco era
squilibrato e che chi gli aveva disegnato lo schemino si era sbagliato
di brutto, ha proposto, sempre ai militari, addirittura un’amnistia.
Amnistia per cosa, non si è capito. E siccome anche ‘sti soldati,
patrioti, non hanno capito per cosa avrebbero dovuto esser assolti e,
soprattutto, da chi, gli hanno fatto un’ulteriore pernacchia,
dichiarandosi fedeli alla patria ed al governo di Caracas.
Il ragazzotto
perso, ma proprio perso, è quindi arrivato a chiedere alla macchina
bellica statunitense di attaccare quello stesso esercito con il quale
aveva tentato di trattare per farsi riconoscere come legittimo
Presidente, al posto di quell’altro che, come abbiamo detto, siede nel
Palazzo di Miraflores. Come nella migliore scenografia di un film
hollywodiano.
Pare sia una sorta di moda
autoproclamarsi, per i venezuelani.
Da quel che si è saputo, anche un
gruppo di pellegrini, nel bel mezzo di una cena in un ristorante chic di
Miami, si è autoproclamato Tribunale Supremo di Giustizia del
Venezuela; un senatore degli Stati Uniti si è autoproclamato Capo delle
Forze Armate Venezuelane, arrivando pure a minacciare le stesse Forze
Armate delle quali voleva diventare leader; un segretario
dell’Organizzazione degli Stati Americani (OEA) si è autoproclamato
Ambasciatore del Venezuela e lo stesso Segretario Generale del suddetto
organismo si è autoproclamato Presidente di tutti gli stati membri,
dicendo che il governo di Caracas era stato espulso dall’Assemblea
dell’OEA. Ora: essendo la stessa Organizzazione degli Stati Americani
composta da 35 stati, per escludere la Repubblica Bolivariana del
Venezuela dalla confederazione, si sarebbero dovuti avere 24 voti
favorevoli alla sua espulsione. Ce ne sono stati solo 18 e
l’Ambasciatore che rappresenta Caracas, Samuel Moncada, continua a
sedere sulla stessa sedia, a parlare ed illustrare (anche molto bene) il
tentativo di colpo di Stato, non riuscito. Il resto, cicce.
Ma in tutto
questo caos non dobbiamo perdere di vista il punto, ossia: il Governo
degli Stati Uniti è “amico” della Colombia e la aiuta in base agli
accordi fatti dai Presidenti che si sono succeduti e, per questo, gli
aiuti umanitari li manda via terra invece che via mare, nonostante
Caracas vanti uno dei porti commerciali, quello della Guaira, abituato a
mercantili di consistenti dimensioni, ed un aeroporto internazionale,
scalo fondamentale per il traffico aereo dell’America Latina.
La Colombia è uno dei paesi con il più
alto tasso di mortalità infantile, di analfabetismo e di delinquenza e,
guarda caso, è l’icona degli interessi di famiglie ‘ndranghestiste e dei
cartelli della droga ed ha ben 8 basi militari statunitensi. Ed una
posizione geografica, come il Venezuela, che è un regalo lasciato dalla
deriva dei continenti; osserva due mari, due fronti continentali a nord e
a sud, e perfino il traffico commerciale di Panamá, pochi chilometri a
nord. E controllerà quello futuro, che si svilupperà nel Canale che si
sta costruendo in Nicaragua grazie agli investimenti cinesi, e che
cambierà, non poco, le regole del commercio internazionale.
Il Governo degli Stati Uniti critica un
paese che, da sempre, nei peggiori Bar di Caracas e nei peggiori barrios
(sobborghi tipo favelas), oltre a bere il Rum Pampero, vede persone che
si prodigano a raccattare gli scarti di cibo dai cassonetti delle zone
“Inn” metropolitane o a spararsi il fine settimana, secondo il cliché
importato del Far West che non era propriamente parte del bagaglio
culturale degli indigeni locali, più avvezzi ad accordarsi per
contrabbandare oro e minerali in una sorta di prostituzione verso gli
Stati Coloniali.
Come, del resto, succede in tutte le
megalopoli latinoamericane e nordamericane che, già dagli anni venti,
sono esplose demograficamente e non hanno importato propriamente
architetti, medici o Professori di antropologia.
Con tutti questi problemi continentali,
quello più importante pare essere Maduro. Un presidente che, a sua
volta, ha a che fare con soggetti di svariata natura che girano con
bombe carta che costano qualcosa come venti dei loro stipendi, che
passano giorni e giorni per strada a manifestare lamentando il fatto che
i figli non hanno di che campare. Ecco, con tutto il rispetto per la
storia sindacale europea, c’è da chiedersi: ma questi qua, in piazza per
mesi e con i figli che muoiono di fame in casa, come portano un piatto
di riso ai loro cari se stanno, belli e determinati, nelle piazze ad
incendiare edifici ed autoveicoli? Sono veramente dei genitori così
“snaturati”?
I loro datori di lavoro gli fanno qualche speciale
contratto che non prevede il licenziamento per assenza continua dal
posto di lavoro? Il Governo li sussidia in qualche modo per farsi
massacrare, oppure qualcuno li paga di più di quello che guadagnerebbero
presentandosi, ogni mattina, dietro ad una scrivania, ad un banco di
vendita o in una fabbrica? Oppure hanno risorse economiche date da
quella speculazione che, per anni, hanno fatto sulla moneta locale, che
gli permette di non aver bisogno di darsi da fare per procurarsi quel
cibo che dicono manchi nel paese?
Ma, agli occhi del mondo, questi signori
sono i poveri che gridano contro un signore baffuto di nome Nicolás
Maduro; peccato che i poveri siano quelli che scendono con le bandierine
e le magliette rosse e che, da questi governi che si sono succeduti,
composti non proprio da luminari dell’economia, qualche vantaggio come
le case popolari, l’assistenza sanitaria gratuita (seppur con una grossa
crisi per l’assenza di farmaci e ricambi per i macchinari ospedalieri
che sono soggetti a sanzioni internazionali), gli studi superiori
accessibili a tutti e qualche altro vantaggio, lo abbiano avuto.
Per
carità, non è che il governo del Partito Socialista Unito del Venezuela
sia l’icona dello sviluppo economico, diciamo pure che di errori, mi
pare evidente, ne commetta abbastanza e ne abbia commessi, in questi
anni, anche di molto gravi. A partire dalla mancata produzione di generi
di prima necessità e allo sviluppo di un’economia basata sempre e solo
sui barili di petrolio da esportare. Ma perché, se nel paese già ci sono
gravi disagi, li si devono accentuare sanzionando persone tanto povere
per farle morire, in nome del diritto internazionale? Perché questa
tecnica assurda, che prevede la sofferenza di milioni di persone, che si
chiama politica delle sanzioni economiche?
Comunque, per tornare a quel tizio di
nome Juan Guaidó, c’è da dire che il Governo USA lo ha prontamente
riconosciuto. E questo perché ha studiato proprio alla George Washington
Accademy, si è formato sotto le ali protettrici di uno di quegli stessi
signori che stanno a capo del Fondo Monetario Internazionale, una di
quelle istituzioni che le sanzioni le formulano, le applicano e le
portano avanti come sistema bellico: un economista venezuelano,
sconosciuto ai più, di nome Luis Enrique Berrizbeitia.
Il Fondo Monetario Internazionale che,
negli ultimi anni, non ha mai espresso nessun disappunto mentre
centinaia di migliaia di venezuelani con doppio conto corrente (dei
quali uno venezuelano ed un altro a Miami, Panama, Madrid, Madeira,
Toronto, Bogotà e mille altri posti ignoti della terra), speculavano
sulla loro stessa moneta (il Bolivar), applicando la vecchia pratica dei
cambisti a nero, favorendo la svalutazione monetaria e arricchendosi
sempre di più. Con tasso di cambio stabilito sulle pagine web di
Monitordolar.ve o di Dolar Today, maneggiate (apparentemente) da
misteriosi signori.
Praticamente, volendo cambiare cento dollari in
bolivares, si pagava una commissione più o meno del 10 per cento (quando
si trattava solo di trasferimento bancario), per arrivare al 40 per
cento, nel caso si volessero acquistare dei soldi in contanti. Un
accumulo di divisa estera che diventava una riserva di valore immensa
ogni qual volta si ri-svalutava la moneta venezuelana. Una riserva che
consente, ad oggi, di comprare appartamenti, risorse energetiche,
materie prime e pure pezzi di paese, a chi la detiene.
Ecco. Questi misteriosi signori sono
quelli che manifestano nelle piazze, da almeno 6 o 7 anni, accusando il
governo di non fare l’interesse del popolo perché non li lascia
trafficare con le loro compravendite di prodotti che poi ributtano sul
mercato a prezzi più che decuplicati rispetto al costo di produzione.
Chiaro: il Venezuela è ancora uno stato capitalista, soggetto
all’economia di mercato. E se si hanno i soldi per comprare enormi
quantitativi di prodotti, in una economia di mercato, nessuno lo può
proibire.
C’è da ribadire mille volte che il
Venezuela non è paese socialista con i burocrati socialisti che
controllano un’economia pianificata, è uno stato capitalista che sta
cercando di fare le riforme per diventare socialista.
I poveri venezuelani, quelli invisibili
che, nel frattempo, in questi anni, si sono iscritti ad un’anagrafe,
hanno avuto un’identità, vogliono una prospettiva che non è rimasta solo
quella di coltivare papaya o di fare gli sciuscià nei centri cittadini.
I poveri venezuelani sono arrivati a
dire la loro, attraverso un semplice meccanismo democratico che si
chiama elezione. Ed hanno eletto, fra i 6 candidati dei 16 partiti che
si sono presentati il 20 maggio scorso alle elezioni anticipate (volute
dall’opposizione), Nicolás Maduro.
In un paese dove, in venti anni, ci sono
state venticinque chiamate alle urne e dove, fino ad oggi, pare che
nessuno avesse mai lamentato niente, i risultati sono stati:
Maduro 67,84%
Henri Falcon (oppositore dell’Avanzata Progressista) 20,93%
Javier Bertucci (come indipendente) 10,82%
Reinaldo Quijada (dell’UPP89) 0,39%
Gli altri due (Luis Ratti e Visconti
Osorio) hanno ottenuto numeri da prefisso telefonico.
Ecco: dato che la
matematica non è un’opinione, in queste percentuali, dovremmo collocare
la quantità dei voti dei seguaci del Signor Juan Guaidó, che sostiene di
avere la maggioranza assoluta nel paese. Sicuramente ce l’ha:
all’estero, dove i venezuelani, o i venezuelani oriundi, vogliono la
testa di Maduro. E si fanno sentire, forte, anche per la loro
possibilità economica di sviaggiare in lungo ed in largo per il globo
terrestre (possibilità che i poveri non hanno) per dialogare con i
governi e con gli stati che in Venezuela metterebbero ben volentieri le
mani sulle riserve petrolifere e minerarie. Governi che pressano per il
riconoscimento del ragazzo della George Washington Accademy e dei corsi
fatti, da Belgrado a Langley, per fomentare rivoluzioni colorate e
prendere il potere.
Ma la cosa da non dimenticare,
soprattutto in Italia (paese che vanta il maggior numero di migranti nel
paese caraibico), è che coloro che vanno ascoltati e tutelati sono gli
italiani residenti oltreoceano e non i venezuelani residenti nel nostro
bel paese. Attenzione: gli italiani, non gli oriundi con doppia
cittadinanza che, come spiegato qualche paragrafo prima, hanno doppio
conto corrente e hanno tutto l’interesse a speculare sul cambio
monetario. E il nostro paese, per primo, non dovrebbe permettere le
ingerenze degli altri governi in un processo di trasformazione economica
che solo in Venezuela, i cittadini ed i residenti, hanno diritto di
scegliere o revocare. Giusto o sbagliato che sia.
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