[…] Abbiamo convocato questo Premio nel mezzo di circostanze storiche molto drammatiche e convulse per la nostra regione. Come la nostra fondatrice, Haydée Santamaría, che “ha conosciuto momenti straordinariamente gravi per la nostra America”, anche noi stiamo vivendo momenti simili. Abbiamo visto gli incendi in Amazzonia, e altri incendi relativi all’offensiva dell’ultradestra e degli Stati Uniti, alla resurrezione della Dottrina Monroe e del maccartismo, a cospirazioni e trabocchetti giuridici contro leaders progressisti, a crimini atroci.
Abbiamo visto in rete grazie a Telesur fosse comuni appena scoperte con centinaia di cadaveri; giovani che hanno perso la vista a causa delle pallottole
dei carabineros in Cile; bambini emigranti chiusi nelle gabbie, separati dalle loro famiglie; manifestanti colpiti, torturati, bruciati con getti d’acqua mischiata all’acido, assassinati; espressioni impudiche di assedio, persecuzione e vendetta. Sono riapparse forme di terrorismo di stato provenienti direttamente dagli anni di Pinochet, di Videla, del Plan Cóndor.
Il 2019 è cominciato nella Nostra America con un presidente “apocrifo” che si è autoproclamato in Venezuela e che è stato frettolosamente riconosciuto da cinquanta paesi con alla testa gli Stati Uniti; è cominciata una scalata di aggressioni di ogni tipo contro il governo legittimo di quella nazione sorella. L’anno è terminato in Colombia con una cifra record di operatori sociali uccisi mentre in Cile con i carabineros che hanno caricato migliaia di manifestanti riuniti nella Plaza de la Dignidad per aspettare il nuovo anno, mentre rendevano onore alle vittime della repressione.
Non per caso, nel 2019 negli Stati uniti si sono moltiplicati i delitti e i gruppi di odiatori. E’ stato un anno ricco di sparatorie di massa. Il 3 agosto un giovane suprematista bianco ha assassinato a El Paso, Texas, ventidue persone e ne ha ferite altre ventiquattro. Era arrivato lì con un fucile e molte munizioni “per uccidere i messicani”, a quanto ha dichiarato. Gli analisti più seri concordano nel dire che la crescita vertiginosa di questi fenomeni è iniziata a partire dalla campagna elettorale del 2016 di Trump. La sua retorica anti immigranti, aggressiva e razzista, ha funzionato sia dentro che fuori dal paese. I suoi frequenti sgarbi verso l’America Latina e il Caribe sono sempre carichi di disprezzo e di razzismo.
Non dobbiamo dimenticare che i metodi di demolizione culturale dei popoli considerati inferiori per giustificare le guerre di conquista sono stati usati da greci e romani, dai rapaci cavalieri delle Crociate, dagli “scopritori” dell’America, da quelli che in Africa sono andati a caccia di uomini, donne e bambini “selvaggi” per farne degli schiavi.
Il genocidio di Hiroshima e Nagasaki è stato preceduto, negli Stati Uniti dall’internamento in campi di concentramento di più di 120.000 immigranti giapponesi e di una campagna crudelmente razzista. In una cronaca sulla battaglia di Iwo Jima (febbraio-marzo 1945), la rivista Time ha scritto che “il giapponese medio è irrazionale e ignorante. Sarà pure umano, ma niente lo indica”. Quante volte nella storia dell’Occidente è stata negata la condizione umana alle vittime “inferiori” dei potenti? Oggi argomenti molto simili vengono ripetuti per legittimare la violenza del sistema contro coloro che vi si oppongono nei media e nelle reti sociali –usate sempre più in maniera fraudolenta, per manipolare elezioni e fomentare pregiudizi e correnti d’opinione false.
Abbiamo visto in Bolivia, dopo il colpo di Stato, delle scene che ricordano i giorni della Conquista, quando la croce e la spada si unirono per imporre l’oppressione e il saccheggio. Sono fiorite manifestazioni fondamentaliste, contro i movimenti indigeni e contro la vita e l’integrità fisica di quelle genti. Il risentimento che è venuto a galla contro simboli e tradizioni indigene, contro le donne che usano la pollera, la gonna tradizionale, contro una bandiera come la wiphala, ha radici molto profonde e vincoli genetici col fascismo. Per questo è davvero significativo che la Casa abbia convocato quest’anno il Premio per gli Studi sulle Culture Originarie d’America. Per questo, il nostro Programma dedicato alle Culture Originarie, coordinato da Jaime Gómez Triana, nel contesto attuale acquista un’importanza maggiore.
Quanto più bellicosa e primitiva è la barbarie, tanto più importante è mantenere il rigore delle ricerche che la Casa deve promuovere su questi processi culturali specifici, accompagnati, ovviamente, dalla più ampia diffusione dei suoi risultati. La cultura autentica è un antidoto di indiscutibile efficacia contro il neofascismo.
Quando abbiamo tenuto la conferenza stampa sul Premio, ho commentato un testo di Roberto Fernández Retamar (“Note sull’America”), pubblicato dalla rivista “Casa”. Lì tratta, con la stessa angoscia di Eric Hobsbawm, dell’ascesa incontrollabile della barbarie lungo tutto il secolo XX e per questo tratto del XXI e ci invita a non abbandonare mai, neanche nelle circostanze peggiori, la fede nelle utopie e nella speranza.
Una barbarie, come sostiene Retamar, che si esprime in un’incredibile capacità distruttiva che non ha mai avuto Hitler e che invece dimostra l’impetratore di questo nuovo Reich, il “Caligola atomico”. Addirittura Trump si rifiuta di accettare il cambio climatico e relative conseguenze ormai praticamente irreversibili per il pianeta e per la specie.
Quanto a Cuba, ho già accennato al principio dell’ossessione degli Stati Uniti contro di noi. Per la prima volta da quando è stata promulgata la legge Helms-Burton, un presidente nordamericano ha firmato i capitoli che permettono di denunciare ai tribunali statunitensi i presunti proprietari o discendenti di proprietari di beni nazionalizzati dalla Rivoluzione contro qualsiasi impresa o cittadino del mondo che stia investendo su una di queste proprietà. Si tratta di un’aberrazione giuridica, extraterritoriale, inammissibile.
Soprattutto se ricordiamo che Cuba si è offerta di negoziare gli indennizzi mentre gli Stati Uniti hanno sempre rifiutato pensando, certo, di recuperarle con la forza quando fosse arrivato il momento. Vuole spaventare gli investitori stranieri. Vuole asfissiarci, come tutte le misure restrittive prese dagli Stati Uniti contro Cuba, praticamente ogni settimana, sui voli, sulle crociere, sulle rimesse, sugli scambi professionali e accademici. Il tutto accompagnato da un diluvio sempre maggiore e sempre più svergognato, di bugie.
Soprattutto se ricordiamo che Cuba si è offerta di negoziare gli indennizzi mentre gli Stati Uniti hanno sempre rifiutato pensando, certo, di recuperarle con la forza quando fosse arrivato il momento. Vuole spaventare gli investitori stranieri. Vuole asfissiarci, come tutte le misure restrittive prese dagli Stati Uniti contro Cuba, praticamente ogni settimana, sui voli, sulle crociere, sulle rimesse, sugli scambi professionali e accademici. Il tutto accompagnato da un diluvio sempre maggiore e sempre più svergognato, di bugie.
Con la persecuzione alle compagnie di navigazione, alle navi e alle compagnie di assicurazione che dovevano trasportare sull’isola il combustibile acquistato, hanno cercato, a partire dall’aprile 2019 di strangolarci con azioni di aperta pirateria e una pressione smisurata e crudele. Ma il paese non si è fermato. Non si sono fermati i programmi di base, vincolati alla costruzione di case, alla produzione di cibo, alla sostituzione d’importazioni, a fomentare l’esportazione dei prodotti tradizionali e di altri nuovi. Non si è fermata la battaglia contro ogni vestigia di burocrazia, contro l’insensibilità, contro la routine.
Non si è fermata l’intensa vita culturale del paese. Si è tenuto con successo il Festival del Cinema. Si è appena concluso un prestigioso evento internazionale di jazz. A febbraio c’è la nostra Fiera del Libro.
Come ha detto il Presidente Díaz-Canel usando una frase popolare che sintetizza le situazioni pericolose che ci sono toccate, “hanno sparato per ucciderci, ma siamo vivi”.
Sappiamo che in questo 2020 continueranno a stringere il cerchio e a sparare per ucciderci; ma noi sopravvivremo. Fra la nostra gente c’è la coscienza molto chiara che ci stiamo giocando cose fondamentali e assolutamente trascendenti – e nessuno ci potrà ingannare con miraggi.
Lo stesso Premio Casa de las Américas è una vittoria sull’impegno patologico di distruggerci. Rappresenta un’altra scommessa di Cuba per la cultura, per la vita, per il pensiero, per la poesia, l’intelligenza, la solidarietà contro il discorso dell’odio, del neofascismo, della stupidaggine arrogante, della menzogna e della manipolazione.
E’ una vittoria di Cuba a cui i membri della giuria hanno contribuito decisamente. Senza dei voi, senza la vostra solidarietà e il vostro appoggio questo Premio avrebbe fallito.
La Casa di Haydée Santamaria, di Retamar, di Mariano, dei suoi fondatori, Marcia, Silvia, Chiqui e di quelli che sono venuti dopo, Nancy, Miriam, Iderlisa, Aurelio, Luisa, María Elena, Vivian, Jorge, Jaime, Yolanda, l’altra Silvis, Camila e tanti altri, è abituata a lavorare fra ostacoli e avversità. E’ un modello sorprendente di resistenza. L’hanno investita perfino cicloni e mareggiate, con cattiveria, pretendendo di distruggere tutto, la memoria che qui si conserva, i libri, le lettere, le riviste, le opere d’arte. Hanno fatto danni alla Casa; ma non sono riusciti a distruggerla. Abbiamo uno straordinario collettivo di lavoratori caratterizzato dal suo senso di appartenenza, dall’orgoglio di far parte di questa istituzione, perché conservano una scintilla vivificante della mistica di Haydée.
A volte mi sembra che la Casa sia una copia in piccolo della Cuba che affronta cicloni, tornados, blocchi e colpi bassi e che continua ostinata a non rinunciare all’utopia.
Il 2003 assomiglia in qualche modo al 2019 e a questo 2020. A marzo di quell’anno, Bush annunciava l’invasione all’Irak. A Miami, i gruppi estremisti di origine cubana scesero in piazza a gridare “Irak adesso; Cuba dopo”. Prima, nel 2002, Bush aveva detto che il suo esercito doveva trasformarsi in “una forza militare pronta ad attaccare immediatamente sessanta o più oscuri angoli del mondo”. “Oscuri”, disse, e a nessuno sfuggì l’intenzione razzista della parola.
A gennaio del 2003, in una celebrazione dedicata a Martí, Fidel affermava che “la grande battaglia si terrà nel campo delle idee e non delle armi” ed esortava i partecipanti a lavorare senza sosta per “seminare idee” e “seminare coscienza”.
La Casa de las Américas ha fatto sua quell’esortazione. E’ uno dei compiti che ha lasciato a noi uomini e donne della cultura. Idee, coscienza, contro coloro che credono che il denaro e le bombe e la forza bruta possono tutto.
(Stralcio delle parole pronunciate per la presentazione del Premio Casa de las Américas 2020 dal Presidente dell’Istituzione, Abel Prieto)
fonte QUI
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