sábado, 2 de noviembre de 2019

Intervista a Raúl Zibechi sulle RIBELLIONI POPOLARI IN CILE, ECUADOR e HAITI ecc.


Gloria Muñoz Ramírez Delle attuali rivolte latinoamericane, del ruolo dei popoli indigeni, i giovani e le donne, del ruolo degli Stati Uniti, delle elezioni in Bolivia e in Argentina, della congiuntura in Messico, dell’ultradestra e di quello che continua per coloro che cercano un mondo più degno, parla in un’intervista Raúl Zibechi, giornalista e scrittore uruguayano, conoscitore, camminatore e accompagnatore di diverse lotte dell’America Latina.

Che sta succedendo in Latinoamerica? Perché ora le rivolte in Ecuador, Haiti, Cile?
Siamo di fronte alla fine di un periodo segnato dall’estrattivismo, fase attuale del neoliberismo o Quarta Guerra Mondiale. In questo senso, credo che siamo di fronte all’autunno dell’estrattivismo, perché il suo periodo d’oro fu prima della crisi del 2008, quando gli alti prezzi delle commodities permisero di migliorare il reddito dei più poveri senza toccare i ricchi, senza riforme strutturali, come la riforma agraria, urbana, impositiva, e così.
In ciascun paese le rivolte sono ben differenti. In Ecuador abbiamo una sollevazione -dal 1990 ce ne sono state una decina- ben organizzata e diretta dalla Confederazione delle Nazionalità Indigene dell’Ecuador (CONAIE), che per la prima volta è stata parzialmente superata dai poveri urbani. In Cile, in cambio, è un’esplosione, senza convocanti né direzioni ma con una crescente organizzazione territoriale attraverso assemblee popolari. I settori più organizzati sono i mapuche, gli studenti e le donne, che stanno giocando un ruolo rilevante.
Credo che la gente sia stufa, arrabbiata, stanca di tanta disuguaglianza e di lavori, sanità ed educazione spazzatura. Quello che c’è sono servizi pessimi per gente da scartare. Questo è percepito soprattutto dai più colpiti, dalle e dai giovani, che vedono di non avere futuro in questo sistema. La gente approfitta delle crepe, come lo sciopero dei trasportatori in Ecuador, per farsi sentire.
Qual è la tua lettura di quello che avviene in Bolivia, riguardo alle elezioni presidenziali nelle quali è stato rieletto Evo Morales e alle successive mobilitazioni?
Una frode di più. Evo Morales e la cricca che lo circonda, come il vicepresidente Álvaro García, si afferrano al potere che è l’unica cosa di cui gli importi. Questa è una lezione importante: carenti di ogni etica, ai dirigenti di sinistra gli rimane solo la propria ossessione per il potere. Questo merita un’analisi profonda. Come siamo giunti a questo? Che è successo per cui l’unico interesse sia il potere e tutto quello che lo riveste, come il lusso e il controllo della vita degli altri?
Morales non avrebbe dovuto presentarsi a queste elezioni perché convocò un referendum e vinse il No alla sua candidatura. Violò la volontà popolare e ora torna a farlo. È chiaro che la destra vuole approfittare di questa situazione, ma non dimentichiamo che l’OEA attraverso Luis Almagro difende il regime di Morales e questo mi sembra molto sintomatico. Coloro che parlano di colpo di stato occultano che c’è un patto con la destra, i militari e l’OEA, ossia gli Stati Uniti, per sostenere il governo di Morales.
Dobbiamo riflettere perché la sinistra non immagina di mollare il potere, perché non concepiscono la politica senza afferrarsi allo stato. Tra le altre cose, perché hanno abbandonato la costruzione di poteri popolari, perché non gli interessa che la gente sia organizzata e fanno tutto il possibile per evitarlo, incluso attraverso la repressione e il terrorismo di stato, come in Nicaragua.
Che ruolo giocano i popoli indigeni nelle rivolte?
Sono il nucleo principale, insieme alle donne e ai giovani. Quello che succede in Cile ha tre precedenti: la lotta del popolo mapuche, quella degli studenti da più di un decennio e quella delle donne che l’anno passato hanno occupato le università e hanno sfidato il patriarcato accademico. Mi fa piacere quando dicono che il Cile si è svegliato. Quelli che si sono svegliati sono stati i giornalisti e gli accademici che stavano nel limbo. Quelli in basso non hanno mai dormito. Un anno fa la risposta di tutto il Cile all’assassinio di Camilo Catrillanca fu impressionante, con blocchi delle strade per un mese a Santiago e in altre trenta città.
I popoli originari hanno due grandi qualità. La prima è l’organizzazione territoriale comunitaria che si sta accrescendo con l’apparire dell’attivismo giovanile e delle donne, che democratizzano le comunità. La seconda è che incarnano forme di vita potenzialmente non capitaliste, qualcosa che nessun altro settore della società può offrire alle lotte. Educazione, sanità e alimenti in chiave non mercantile, a cui bisogna aggiungere la costruzione di poteri di altro tipo, non statali.
Per questo i popoli sono dei referenti per tutti coloro che lottano. Per questo i bianchi urbani sventolano bandiere mapuche e le donne, studentesse e contadine ecuadoriane accettano la direzione degli indigeni. Mi piacerebbe dire che oggi i popoli originari sono il principale referente delle rivolte, anche di settori delle classi medie urbane. A Quito le donne professioniste pulivano quotidianamente i bagni della Casa della Cultura, mentre le donne e i maschi originari dibattevano nelle assemblee improvvisate. Lo hanno fatto come gesto di rispetto e di accettazione attiva della loro guida, con un atteggiamento che deve farci riflettere dal cuore, perché emoziona profondamente.
L’Uruguay rifiuta la Guardia Nazionale che, a proposito, in Messico è stata approvata. Qual è il saldo delle forze armate nelle strade?
Nei prossimi anni vedremo ogni volta più militari nelle strade. Lula e Dilma, in Brasile, li portarono nelle favelas e nessuno alzò la voce, perché sono neri e perché sono “delinquenti”. Il tema del crimine organizzato è un pretesto perfetto, perché serve a pulire la coscienza delle classi medie della sinistra, che sono quelle che subiscono meno violenza.
Il futuro ministro degli Interni del Frente Amplio in Uruguay, Gustavo Leal, ora lavora in questo ministero e si dedica a perseguitare i punti di smercio della “pasta base” (PBC), con un accanimento speciale giacché abbatte le loro case quando sono incarcerati. Non sono narcos, in senso stretto, ma poveri che sopravvivono nella delinquenza, ai quali applica metodi repressivi identici a quelli che Israele utilizza con i palestinesi. Nonostante ciò, sono stati scoperti in Europa carichi di cocaina fino a cinque tonnellate imbarcati nel porto di Montevideo.
L’uscita in strada dei militari è inevitabile, perché quelli in alto hanno dichiarato la guerra alla popolazione. E questo non ha nessuna relazione con sinistra o destra, è una questione di classe e di colore della pelle, è la politica dell’1% per mantenersi in alto.
Che lettura dai del Messico in questo contesto latinoamericano?
Da tempo in Messico sta incubando qualcosa di simile a quello del Cile, una straordinaria esplosione che è stata rinviata prima dalla guerra e ora dal governo di Andrés Manuel López Obrador. Ma la pentola accumula pressione ed è inevitabile che ad un certo punto avvenga un’enorme sollevazione, quando la rabbia supererà la paura. Non sappiamo quando, ma il processo è in marcia, perché la politica di accrescimento dell’estrattivismo dell’attuale governo è un macchinario di accumulazione di rabbie.
D’altra parte, vedo in Messico un potere debole, un governo che si tira indietro di fronte al narco come è successo a Culiacán, ma fa pressione sui popoli come è successo nel Morelos, quando hanno assassinato il difensore comunitario Samir Flores Soberanes. AMLO negozia con il narco e passa sopra ai popoli originari, fatto che rivela la miseria etica del suo governo. Dice che si è trattato di salvare vite, per quello che posso intendere. Ma, chi ha difeso la vita di Samir e di tanti altri assassinati in questo suo primo anno di governo?
L’Argentina e le elezioni. È la soluzione il ritorno al progressismo?
Il problema è che ritorna un’altra cosa che non è il progressismo. In Argentina non torna il kirchenrismo del 2003, ma un regime peronista molto repressivo, che sarà più simile al Perón del 1974 o a quello di Menem del 1990. Il ciclo progressista è terminato, anche se ci saranno governi che si dichiarano di questa corrente. Il progressismo è stato un ciclo di alti prezzi delle commodities, che permise di trasferire entrate ai settori popolari per gli alti surplus commerciali. Ma oltre a questo fattore economico, il ciclo finisce per un altro fattore decisivo: termina la passività, il consenso tra le classi, si attivano i movimenti e questo segna un limite chiaro al ciclo che era possibile solo per l’accettazione in basso delle politiche dall’alto.
Credo che il nuovo governo debba affrontare enormi difficoltà per il peso del debito che lascia Macri, che obbliga ad una politica di austerità. Il problema è l’aspettativa popolare che le cose cambino rapidamente e avvenga un miglioramento notevole delle attività economiche e dei salari.
Sappiamo che questo non è possibile, allora si apre un periodo di imprevedibilità nel quale la gente non aspetterà passivamente che gli diano dei benefici. In Argentina vedremo un potente accrescimento dell’estrattivismo, in particolare il petrolio e il gas di Vaca Muerta.
Costa Rica e Panama con rivolte studentesche. Che ruolo giocano i giovani?
I giovani sono uno dei settori più attivi. Se gli indigeni stanno venendo saccheggiati e le donne violentate e assassinate, i giovani sanno di non aver futuro, perché una vita degna non può consistere in un lavoro di otto o dieci ore in un Oxxo, che con il viaggio di andata e ritorno a casa assomma a quasi quattordici ore sottomessi al lavoro, senza tempo né energia per fare un’altra cosa che consumare con il poco che gli rimane del proprio salario. Nel migliore dei casi che abbiano un salario.
Solo una minoranza ha accesso a studi superiori, con borse di studio che gli garantiscono fino ai 40 anni una vita comoda, fatto che presuppone un contrasto acuto con i giovani dei settori popolari, indigeni e negri. Escono dai propri quartieri e sono oggetto della violenza poliziesca o del narco, fatto che suggerisce che vivono in una situazione di acuta fragilità. Questo li porta in certi momenti ad integrarsi nel crimine organizzato, che gli garantisce una vita più comoda. Ma soprattutto accumulano rabbia, molta rabbia.
In Ecuador, dirigenti comunitari veterani erano sorpresi che i giovani stessero addosso ai gendarmi, a mano nuda, per pura rabbia, senza misurare le conseguenze. Sono riusciti a bloccare centinaia di poliziotti che dopo sono stati consegnati all’ONU o ad altre autorità, perché i dirigenti sono intervenuti affinché non li ferissero, che se fosse stato per loro li avrebbero liquidati lì stesso, ai piedi delle barricate. Perché questa gioventù povera non ha esperienze di lotta organizzata e tende a tirar fuori la rabbia attaccando i propri nemici, in quello che può generare degli autentici massacri. Ma stanno lì, superando ogni contenzione immaginabile: dalla famiglia e il quartiere fino agli apparati repressivi e, certamente, le organizzazioni di sinistra. Qui dobbiamo lavorare duro per organizzare.
Il ruolo dell’ultradestra e il caso di Bolsonaro in Brasile
Dal momento in cui Bolsonaro è giunto al governo, attraversa una successione di errori, segnalando un’enorme incapacità di governare. Sono scoppiate crisi nel suo stesso partito, tra il presidente e i suoi alleati, con gli impresari e i grandi agricoltori. La vera ultradestra sono le forze armate, in particolare l’esercito, che gioca il ruolo di stabilizzatore del governo.
Credo che il grande problema del Brasile sia la tremenda insicurezza nella vita quotidiana che subiscono i gruppi popolari, in genere poveri e neri, che li porta a cercare rifugio nelle chiese evangeliche e pentecostali, così come in figure che danno un’immagine di “sicurezza”, come Bolsonaro. Quello che dobbiamo chiederci è perché i settori popolari hanno abbandonato il Partito del Lavoro (PT) e si sono rivolti all’ultradestra.
La risposta semplicistica è che sono influenzati dai media. Una posizione che difendono gli accademici che si credono immuni ai media e che sottovalutano le capacità popolari. La realtà è che la vita di coloro che vivono nelle favelas è tremenda: precarietà lavorativa, opprimente presenza della polizia militare, crimini e assassinii da parte dello stato, sanità ed educazione di pessima qualità, timore per i figli, che cadano vittime dei proiettili in percentuali allucinanti. Le madri temono per i propri figli e questi per il proprio futuro. Un clima ideale per la cattura di ultradestra, in particolare dei maschi che si sentono allontanati per l’aumento di potere delle proprie coppie.
In questo contesto, qual è il ruolo degli Stati Uniti?
La regione sta diventando lo scenario di una lotta per l’egemonia globale tra gli Stati Uniti e la Cina. La penetrazione cinese sta mostrando che è anche peggiore di quella yankee. In Ecuador si costruiscono opere di infrastruttura come dighe idroelettriche, con schiavi cinesi che commutano le proprie condanne lavorando in condizioni forzate, anche con pene corporali. Nessuno deve credere che il capitalismo e l’imperialismo cinesi siano meno oppressivi o aggressivi di quello yankee.
Il problema è che gli Stati Uniti necessitano di riposizionarsi in America Latina per compensare la loro crescente debolezza in Africa, Asia e Medio Oriente. Una delle tendenze che vedremo nell’immediato futuro, è la distruzione degli stati-nazione, processo che è già cominciato in Messico e in paesi del Centroamerica. Da questo lato, dobbiamo aspettarci il peggio.
Verso dove?
La principale caratteristica di questo periodo post ciclo progressista, è l’instabilità. Le destre non possono governare, come lo dimostrano il Cile e l’Ecuador. Ma i progressismi nemmeno, come lo dimostrano la Bolivia e il Nicaragua. Ma attenzione, il problema non è tale o quale governo (il governo è sempre un problema), ma il sistema. Queste rivolte non sono contro un presidente ma contro un modello di distruzione della natura e di controllo sociale di massa attraverso politiche sociali e militarizzazione, che si integrano per mantenere la popolazione soggiogata.
La risposta di verso dove, non può essere altra che l’organizzazione popolare in ogni territorio, per resistere e costruire i mondi nuovi. Mi piace parlare di arche, perché è necessario sopravvivere collettivamente al diluvio che viene. Desinformémos può essere considerata come un’arca dell’inter-informazione di quelli in basso, come il meccanismo per collegare condotte, come direbbe Alberto Maturana. Ossia, un’informazione verso dentro il campo popolare o le arche collettive, che è imprescindibile per orientarci in senso emancipatorio, ma soprattutto per muover-ci in mezzo ad una tormenta che non lascia vedere nulla, perché il diluvio è così forte che annebbia la vista.
28 ottobre 2019
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