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Sergio Romano
Credo che i lettori del Corriere della Sera apprezzerebbero molto una sua disamina sulla guerra in corso in Israele e i suoi possibili sviluppi. Lionello Leoni
Vi sono almeno due modi per giudicare un conflitto e pesare le responsabilità dei contendenti. Il primo è quello di ricostruire la dinamica delle vicende che hanno preceduto l'inizio delle ostilità. Chi ha sparato per primo? Chi ha assunto l'atteggiamento più provocatorio? La risposta a queste domande è indubbiamente: Hamas. L'organizzazione islamica che governa la striscia di Gaza ha denunciato la tregua e ha continuato a colpire con i suoi missili alcune città israeliane in prossimità del confine. Sapeva che i suoi lanci avrebbero provocato una reazione israeliana, ma non ha rinunciato alle sue azioni offensive. Voleva una guerra e l'ha avuta.
Il secondo è quello di allargare lo sguardo a un periodo più lungo e di prendere in considerazione altri fattori. Israele ha occupato alcuni territori arabi nel 1967 e ha assunto in tal modo il controllo di una popolazione che ammonta oggi, complessivamente, a non meno di tre milioni e 300 mila abitanti. Non li ha assorbiti all'interno della propria società perché avrebbero intollerabilmente diluito la sua natura di Stato ebraico.
Non ha garantito a essi una reale autonomia perché ha permesso ai suoi cittadini di insediarsi nei territori occupati e di estendere le proprie comunità occupando terre della popolazione locale: un fenomeno che ha avuto per effetto, oltre a numerosi espropri, l'instaurazione di controlli, blocchi stradali, corsie preferenziali per i cittadini della potenza occupante. Ha ritirato 8 mila coloni dalla Striscia di Gaza, ma non ha riconosciuto la vittoria di Hamas nelle elezioni del gennaio 2006.
Ha stretto d'assedio la Striscia per diciotto mesi prima dell'inizio delle ostilità. E ha adottato infine verso la popolazione civile lo stile di una tradizionale potenza coloniale. Mi ha colpito, ma non sorpreso, la lettura dell'articolo dello scrittore e giornalista israeliano Yossi Klein Halevi ( Corriere del 6 gennaio) che ha fatto servizio militare nella Striscia di Gaza durante la prima Intifada e scrive: «Il nostro contingente non solo arrestava i sospettati di terrorismo, ma trascinava la gente giù dai letti nel cuore della notte per costringerla a coprire di vernice le strisce anti israeliane e rastrellava persone innocenti, dopo un lancio di granate, giusto "per far sentire la nostra presenza"».
E non è possibile dimenticare a questo proposito la distruzione delle case dove abitavano le famiglie dei guerriglieri e gli 11 mila detenuti palestinesi nelle carceri israeliane, prigionieri di guerra, ma trattati come terroristi e combattenti irregolari. Tutta colpa di Israele? No. Al Fatah prima, Hamas e Jihad islamica poi hanno ucciso civili israeliani, compiuto attentati terroristici nelle città, deliberatamente provocato le reazioni di Israele, alimentato un ingranaggio che consentiva ai loro gruppi più radicali di assumere la guida del movimento.
Ma esiste in queste situazioni una legge politica a cui non è possibile sottrarsi. Le maggiori responsabilità, in ultima analisi, sono sempre della potenza occupante. Se 41 anni di occupazione non bastano a risolvere il problema, le conseguenze ricadono inevitabilmente sulle sue spalle. Esiste anche una seconda legge che risponde indirettamente alla domanda di Gold. Chi fa una guerra non può limitarsi a programmare le operazioni militari. Deve avere un progetto per il dopoguerra. Se l'obiettivo è sbaragliare Hamas, chi governerà la Striscia di Gaza dopo la fine del conflitto? Con chi fare la pace se non con quelli contro i quali si è combattuto
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