Olimpiadi 68: L’uomo bianco in quella foto
Riccardo Gazzaniga (blog) Le fotografie, a volte, ingannano.
Prendete
questa immagine, per esempio. Racconta il gesto di ribellione di Tommie
Smith e John Carlos il giorno della premiazione dei 200 metri alle
Olimpiadi di Città del Messico e mi ha ingannato un sacco di volte.
L’ho
sempre guardata concentrandomi sui due uomini neri scalzi, con il capo
chino e il pugno guantato di nero verso il cielo, mentre suona l’inno
americano. Un gesto simbolico fortissimo, per rivendicare la tutela dei
diritti delle popolazioni afroamericane
The white man in that photo * (english)
in un anno di tragedie come la morte di Martin Luther King e Bob Kennedy.
È la
foto del gesto storico di due uomini di colore. Per questo non ho mai
osservato troppo quell’uomo, bianco come me, immobile sul secondo
gradino.
L’ho
considerato una presenza casuale, una comparsa, una specie di intruso.
Anzi, ho perfino creduto che quel tizio – doveva essere un inglese
smorfioso – rappresentasse, nella sua glaciale immobilità, la volontà di
resistenza al cambiamento che Smith e Carlos invocavano con il loro
grido silenzioso.
Invece
sono stato ingannato. Grazie a un vecchio articolo di Gianni Mura, oggi
ho scoperto la verità: l’uomo bianco nella foto è, forse, l’eroe più
grande emerso da quella notte del 1968.
Si
chiamava Peter Norman, era australiano e arrivò alla finale dei 200
metri dopo aver corso un fantastico 20.22 in semifinale. Solo i due
americani Tommie “The Jet” Smith e John Carlos avevano fatto meglio:
20.14 il primo e 20.12 il secondo.
La
vittoria si sarebbe decisa tra loro due, Norman era uno sconosciuto cui
giravano bene le cose. John Carlos, anni dopo, disse di essersi chiesto
da dove fosse uscito quel piccoletto bianco. Un uomo di un metro
settantotto che correva veloce come lui e Smith, che superavano entrambi
il metro e novanta.
Arrivò
la finale e l’outsider Peter Norman fece la gara della vita,
migliorandosi ancora. Chiuse in 20.06, sua prestazione migliore di
sempre e record australiano ancora oggi imbattuto, a 47 anni di
distanza.
Ma
quel record non bastò, perché Tommie Smith era davvero “The jet” e
rispose con il record del mondo. Abbatté il muro dei venti secondi,
primo uomo della storia, chiudendo in 19.82 e prendendosi l’oro.
John Carlos arrivò terzo di un soffio, dietro la sorpresa Norman, unico bianco in mezzo ai fuoriclasse di colore.
Fu una gara bellissima, insomma.
Eppure quella gara non sarà mai ricordata quanto la sua premiazione.
Non
passò molto dalla fine della corsa perché si capisse che sarebbe
successo qualcosa di forte, di inaudito, al momento di salire sul podio.
Smith
e Carlos avevano deciso di portare davanti al mondo intero la loro
battaglia per i diritti umani e la voce girava tra gli atleti.
Norman
era un bianco e veniva dall’Australia, un paese che aveva leggi di
apartheid dure quasi come quelle sudafricane. Anche in Australia c’erano
tensioni e proteste di piazza a seguito delle pesanti restrizioni
all’immigrazione non bianca e leggi discriminatorie verso gli aborigeni,
tra cui le tremende adozioni forzate di bambini nativi a vantaggio di
famiglie di bianchi.
I due americani chiesero a Norman se lui credesse nei diritti umani.
Norman rispose di sì.
Gli chiesero se credeva in Dio e lui, che aveva un passato nell’esercito della salvezza, rispose ancora sì.
“Sapevamo
che andavamo a fare qualcosa ben al di là di qualsiasi competizione
sportiva e lui disse “sarò con voi” – ricorda John Carlos – Mi aspettavo
di vedere paura negli occhi di Norman, invece ci vidi amore”.
Smith
e Carlos avevano deciso di salire sul podio portando al petto uno
stemma del Progetto Olimpico per i Diritti Umani, un movimento di atleti
solidali con le battaglie di uguaglianza.
Avrebbero
ritirato le medaglie scalzi, a rappresentare la povertà degli uomini di
colore. E avrebbero indossato i famosi guanti di pelle nera, simbolo
delle lotte delle Pantere Nere.
Ma prima di andare sul podio si resero conto di avere un solo paio di guanti neri.
“Prendetene uno a testa” suggerì il corridore bianco e loro accettarono il consiglio.
Ma poi Norman fece qualcos’altro.
“Io
credo in quello in cui credete voi. Avete uno di quelli anche per me?“
chiese indicando lo stemma del Progetto per i Diritti Umani sul petto
degli altri due. “Così posso mostrare la mia solidarietà alla vostra
causa”.
Smith
ammise di essere rimasto stupito e aver pensato: “Ma che vuole questo
bianco australiano? Ha vinto la sua medaglia d’argento, che se la prenda
e basta!”.
Così
gli rispose di no, anche perché non si sarebbe privato del suo
stemma. Ma con loro c’era un canottiere americano bianco, Paul Hoffman,
attivista del Progetto Olimpico per i Diritti Umani. Aveva ascoltato
tutto e pensò che “se un australiano bianco voleva uno di quegli stemmi,
per Dio, doveva averlo!”. Hoffman non esitò: “Gli diedi l’unico che
avevo: il mio”.
I tre uscirono sul campo e salirono sul podio: il resto è passato alla storia, con la potenza di quella foto.
“Non
ho visto cosa succedeva dietro di me – raccontò Norman – Ma ho capito
che stava andando come avevano programmato quando una voce nella folla
iniziò a cantare l’inno Americano, ma poi smise. Lo stadio divenne
silenzioso”.
Il
capo delegazione americano giurò che i suoi atleti avrebbero pagato per
tutta la vita quel gesto che non c’entrava nulla con lo sport.
Immediatamente Smith e Carlos furono esclusi dal team americano e
cacciati dal villaggio olimpico, mentre il canottiere Hoffman veniva
accusato pure lui di cospirazione.
Tornati a casa i due velocisti ebbero pesantissime ripercussioni e minacce di morte.
Ma
il tempo, alla fine, ha dato loro ragione e sono diventati paladini
della lotta per i diritti umani. Sono stati riabilitati, collaborando
con il team americano di atletica e per loro è stata eretta una statua
all’Università di San José.
In questa statua non c’è Peter Norman.
Quel
posto vuoto sembra l’epitaffio di un eroe di cui nessuno si è mai
accorto. Un atleta dimenticato, anzi, cancellato, prima di tutto dal suo
paese, l’Australia.
Quattro
anni dopo Messico 1968, in occasione delle Olimpiadi di Monaco, Norman
non fu convocato nella squadra di velocisti australiani, pur avendo
corso per ben 13 volte sotto il tempo di qualificazione dei 200 metri e
per 5 sotto quello dei 100.
Per questa delusione, lasciò l’atletica agonistica, continuando a correre a livello amatoriale.
In
patria, nell’Australia bianca che voleva resistere al cambiamento, fu
trattato come un reietto, la famiglia screditata, il lavoro quasi
impossibile da trovare. Fece l’insegnante di ginnastica, continuò le sua
battaglie come sindacalista e lavorò saltuariamente in una macelleria.
Un infortunio gli causò una grave cancrena e incorse in problemi di
depressione e alcolismo.
Come disse John Carlos “Se a noi due ci presero a calci nel culo a turno, Peter affrontò un paese intero e soffrì da solo”.
Per
anni Norman ebbe una sola possibilità di salvarsi: fu invitato a
condannare il gesto dei suoi colleghi Tommie Smith e John Carlos, in
cambio di un perdono da parte del sistema che lo aveva ostracizzato. Un
perdono che gli avrebbe permesso di trovare un lavoro fisso tramite il
comitato olimpico australiano ed essere parte dell’organizzazione delle
Olimpiadi di Sidney 2000.
Ma lui non mollò e non condannò mai la scelta dei due americani.
Era
il più grande sprinter australiano mai vissuto e detentore del record
sui 200, eppure non ebbe neppure un invito alle Olimpiadi di Sidney. Fu
il comitato olimpico americano, una volta scoperta la notizia a
chiedergli di aggregarsi al proprio gruppo e a invitarlo alla festa di
compleanno del campione Michael Johnson per cui Peter Norman era un
modello e un eroe.
Norman morì improvvisamente per un attacco cardiaco nel 2006, senza che il suo paese lo avesse mai riabilitato.
Al
funerale Tommie Smith e John Carlos, amici di Norman da quel lontano
1968, ne portarono la bara sulle spalle, salutandolo come un eroe.
“Peter
è stato un soldato solitario. Ha scelto consapevolmente di fare da
agnello sacrificale nel nome dei diritti umani. Non c’è nessuno più di
lui che l’Australia dovrebbe onorare, riconoscere e apprezzare” disse
John Carlos.
“Ha
pagato il prezzo della sua scelta – spiegò Tommie Smith – Non è stato
semplicemente un gesto per aiutare noi due, è stata una SUA battaglia.
È stato un uomo bianco, un uomo bianco australiano tra due uomini di
colore, in piedi nel momento della vittoria, tutti nel nome della stessa
cosa”.
Solo
nel 2012 il Parlamento Australiano ha approvato una tardiva
dichiarazione per scusarsi con Peter Norman e riabilitarlo alla storia
con queste parole:
“Questo
Parlamento riconosce lo straordinario risultato atletico di Peter
Norman che vinse la medaglia d’argento nei 200 metri a Città del
Messico, in un tempo di 20.06, ancora oggi record australiano.
Riconosce
il coraggio di Peter Norman nell’indossare il simbolo del Progetto
OIimpico per i Diritti umani sul podio, in solidarietà con Tommie Smith e
John Carlos, che fecero il saluto del “potere nero”.
Si
scusa tardivamente con Peter Norman per l’errore commesso non
mandandolo alle Olimpiadi del 1972 di Monaco, nonostante si fosse
ripetutamente qualificato e riconosce il potentissimo ruolo che Peter
Norman giocò nel perseguire l’uguaglianza razziale”.
Ma,
forse, le parole che ricordano meglio di tutti Peter Norman sono quelle
semplici eppure definitive con cui lui stesso spiegò le ragioni del suo
gesto, in occasione del film documentario “Salute”, girato dal nipote
Matt.
“Non
vedevo il perché un uomo nero non potesse bere la stessa acqua da una
fontana, prendere lo stesso pullman o andare alla stessa scuola di un
uomo bianco.
Era un’ingiustizia sociale per la qualche nulla potevo fare da dove ero, ma certamente io la detestavo.
È stato
detto che condividere il mio argento con tutto quello che accadde
quella notte alla premiazione abbia oscurato la mia performance.
Invece è il contrario.
Lo devo confessare: io sono stato piuttosto fiero di farne parte”.
Fonte: http://riccardogazzaniga.com/luomo-bianco-in-quella-foto/
1 comentario:
Articolo bellissimo
Publicar un comentario