lunes, 29 de agosto de 2011

Appunti scritti con il gesso (1)

foto Aldo Bonasia
T.P. Questo e' un viaggio nel passato di un Paese, di una cittá e di una generazione, dove Fausto Rizzotti ci sospinge con la fermezza lieve di chi si misura con la memoria della sua adolescenza. E lo fa con le assonanze, i significati e le metafore utilizzate in quelle periferie, dove si incrociavano risonanti gli echi molteplici degli idiomi della terra.Ancora vergini, non dialetti, non neo-lingue glob o blob. F. Rizzotti si esprime con la lingua schietta e scarna della memoria.Ci offre i segni rupestri primigeni di un sottosuolo comune a molti di noi, che scolpí un'ampia tappa del passato contemporaneo.Da lí poterono germinare i sussulti d'una ribellione che seppe protrarsi e che non fu mai riducibile solo a "politica". Questa e' la prima (di sei) parti di un racconto lungo che inseriremo qui ogni sabato.
Fausto M. Rizzotti
Era l'anno che mio papà si era quasi lasciato convincere dal suo capo ufficio a investire un po' di soldi nella carne in scatola. Ne aveva parlato con mia mamma, le aveva spiegato che si trattava di una nuova ditta che inscatolava carne argentina, che la signora Ada, una nostra vicina coi parenti a Buenos Aires, la vantava tanto. Nell'affare c'entravano anche i dirigenti del cotonificio, perfino uno svizzero, più sicuro di così! Ma lei niente: "Vendere i Bot? Ma se sono per quando si sposa la prima!" Voleva dire la mia sorella maggiore. Così una volta, a pranzo, io e mia sorella più piccola abbiamo saputo che esistevano i Bot e che erano per la maggiore, ma non abbiamo capito che cos'erano. Quell'anno mio papà mi ha spiegato che il comunismo è come il mondo delle formiche, io mi sono meravigliato, allora mi ha fatto l'esempio delle api.

A quel tempo gli era presa la passione per "Le memorie di un entomologo" di Fabre. Poi, una volta che io e la mia sorella piccola eravamo soli, ci siamo messi a frugare per tutta la casa, e in un cassetto del comò abbiamo trovato dei fogli di carta colorata e abbiamo capito che erano Bot. Chissà a cosa sarebbero tornati buoni, a mia sorella grande, quei quattro fogli di carta? In un cassetto del contro buffet abbiamo trovato la "tessera di riconoscimento rilasciata ai compagni inquadrati nel periodo cospirativo" settore III ovest, luglio 1945, con una fotografia di mio padre da giovane, scattata probabilmente una decina d'anni prima; elegante, sicuro di sè e soprattutto in carne, così diverso dal papà che conoscevamo.


E la tessera del P.C.I., 1951. Da quanto c'era scritto sul retro abbiamo scoperto che il nostro papà era impegnato "a lottare... approfondire... osservare... esercitare... vigilare... a fare opera continua..." e lì abbiamo capito che anche il lunedì sera, quando ascoltava alla radio Magneti Marelli il concerto lirico-sinfonico Martini e Rossi - e guai se fiatavamo - lui stava lottando, approfondendo, vigilando e tutte le altre cose che si era impegnato a fare.




L'estate prima, invece, mia zia Nina, che abitava vicino a Milano e faceva la sarta, ci aveva spiegato che cos'era il capitale. Il capitale era una cosa che aveva il Carletto, che aveva sposato una nostra cugina francese ma poi si erano divorziati. Il Carletto faceva il salumiere specializzato in insalata russa. Lui, il Carletto, aveva fatto girare il capitale e aveva aperto una salumeria a Milano, poi l'aveva fatto girare ancora e aveva combinato una cosa che non si riusciva a capire.


E poi l'aveva fatto girare ancora tante di quelle volte che c'era da diventare matti. La zia Nina aveva un problema con il Carletto e anche con le sue sorelle - lei era la maggiore: avevano fatto sparire i soldi della casa di famiglia e lei e mio papà non avevano visto una lira, niente. E aveva avuto anche un problema con le Am Lire, che "se compravo un terreno, adesso chissà quanto valeva." Ma a me e a alla mia sorella piccola aveva fatto più effetto la storia del capitale.


All'inizio di agosto la zia Nina chiudeva "baracca e burattini", cioè la sartoria, e veniva da noi a lavorare. In pratica chiudeva la porta di casa, perchè lei lavorava in casa, un locale di una ventina di metri quadri - a occhio - cucina e camera da letto divise da una tenda. Aveva tre o quattro lavoranti; lei tagliava e faceva le rifiniture, le altre imbastivano, cucivano, facevano le asole, mettevano su la minestra di cavoli, il salamino e il caffè, soprattutto mettevano su il caffè. Per stare sveglia, tra una tazzina e l'altra, mia zia masticava i chicchi e parlava di sette ottavi, carré e martingale, ma soprattutto di cronaca nera - Rina Fort, la belva di via San Gregorio, la contessa Bellentani di Villa D'Este e la saponatrice di Correggio che aveva tagliato a pezzi e bollito tre sue amiche e mangiava pasticcini al sangue umano.
Leggeva la rivista Crimen per addormentarsi e poi non riusciva a dormire. Oppure litigava a causa di due cantanti famose, la Tonina Torrielli e la Nilla Pizzi; lei teneva alla Pizzi. Mia zia faceva tutto con la mano destra perché la sinistra non ce l'aveva dalla nascita, aveva solo un pugnetto rotondo senza dita, con un taglio su un lato, comodo per infilare l'ago.


Arrivava da noi la mattina, che i miei erano già andati a lavorare, si metteva alla macchina da cucire e cominciava subito a rivoltare paltò, gonne, giacche, pantaloni, a fare orli, ci sistemava il guardaroba. In cambio voleva due cose: il caffè vero, non la miscela Leone e che, dopo cena, fino all'ora di andare a letto, i miei genitori la stessero ad ascoltare mentre inveiva contro le sorelle puttane, le Am Lire e il capitale del Carletto che poi, a voler guardare, non era neanche un suo parente. E se a mio papà capitava di distrarsi, mia mamma lo sgridava subito perché lei non sapeva cucire, sapeva solo rammendare le calze e una sarta in casa, che passava le vacanze a rimetterle a posto il guardaroba sai quanto li faceva risparmiare?


Così, ai primi d'agosto, una mattina che i miei e mia sorella più grande erano già andati a lavorare, la zia Nina è arrivata, ci ha dato un bacino, ci ha accarezzato col suo pugnetto e si è messa alla macchina da cucire. Io e la mia sorella piccola che aveva due anni più di me... chissà cosa ci ha preso? Invece di prepararle il caffè le abbiamo subito raccontato che il Carletto aveva venduto la dentiera e così si era fatto un capitale; che l'aveva girato per comprare una gamba di legno e che l'aveva girata per comprare l'insalata russa che poi... e a questo punto mia zia si è arrabbiata di brutto, ci ha dato dei maleducati e è ritornata al suo paese.
A mezzogiorno e dieci, quando i miei genitori sono tornati dal lavoro noi, come al solito, eravamo sotto il tavolo. Era lì che preparavamo i nostri scherzi, come tirare i pomodori in testa a quelli che passavano per strada, che una volta ne abbiamo centrato uno, gli abbiamo rotto l'ombrello e quello lì è venuto su al terzo piano a gridare che ci aveva visti ma noi avevamo chiuso la porta col catenaccio. O come lo scherzo di scappare dall'asilo, che ci era riuscito benissimo.


Una volta che era venuta a trovarci la signora Speranza, un'amica della mamma, noi subito a prenderla in giro col ritornello "Speranza, cuor di Speranza", che avevamo sentito da qualche parte e giù a ridere che mia mamma ci ha dato due sberle. Anche con quello che veniva a prendere i numeri della luce... Gli facevamo una scenetta sentita alla radio. Mia sorella diceva: "Io son la figlia di un gran signor," e io le rispondevo: "Mi son l'Anacleto, quel del cunteur (il contatore)," una decina di volte fino a quando si imbestialiva. Ma quella del capitale del Carletto era stata il massimo. Quando i nostri genitori sono tornati per il pranzo e ci hanno chiesto dov'era la zia Nina gli abbiamo risposto che era partita perché... mah.
2
In quanto a origini, la nostra famiglia era proprio "un rabelotto", con i nonni paterni croati e friuliani, questi forse originari della Sicilia, quelli materni romagnoli e, a giudicare dal naso e dalla pelle olivastra di mia mamma, anche ebrei. A parte l'italiano, che mio papà parlava benissimo, sapevamo un miscuglio di dialetti. Già, in strada, per farsi capire, bisognava parlare il basso varesotto, che sarebbe il milanese pronunciato da un bull-dog e che ha un modo tutto suo di combinare le parole. Bisognava dire: ero dietro a fare invece di stavo facendo, la aradio invece di la radio, la sale invece di il sale, semézzu (basta metà) invece di ottimo, per via che invece di siccome, essere all'altezza invece di essere capaci e altre parole che mi sono desmentegato. Ma... che cosa ero dietro a dire? Ah, sì, di come parlavamo.


In casa, mio papà, quando raccontava le storie del suo paese, le condiva con parole e frasi in friulano, che è una lingua, non un dialetto, diceva lui. Per esempio: mandi (ciao), plene (incinta), tic (poco), purcit d'un frut (porco di un figliolo), dut (tutto), putanisse (questo si capisce da sè); conosceva perfino la formula friulana per sbattezzarsi. Leggeva i romanzi di Zola in lingua originale, citava La Madre di Gorki, una disgraziata più disgraziata di noi e il Manzoni - quel ramo del lago di Como, scendeva da uno di quegli usci, povero Renzo, la c'è la giustizia... ma non solo l'inizio, frasi, paragrafi, pagine, capitoli interi - e anche i Promessi Sposi di Guido da Verona dove Lucia, quando capisce che la rapiscono per spedirla sul marciapiedi, esclama, tutta contenta: "A Paris, mon Dieu!" E l'Inferno di Dante, tipo: O Jacopo dicea da Santandrea, la bocca sollevò dal fiero pasto, quali colombe dal disio chiamate; ma non così, canti interi. Aveva fatto la sesta, per tutto il resto era autodidatta.


Quando uno aveva appetito, citava da una novella di Pirandello: "Mangi però!" E i libretti d'opera, con il loro linguaggio e i nomi strampalati? Radames, ero già figlio primo d'amarti, di Provenza il sacro suol, Nicola Rossi Lemeni, l'ora è fuita, una voce poco fa... E certe stranezze, tipo: bevi Rosmunda nel teschio di tuo padre... che mia mamma gli diceva "basta, smettila," oppure volgarità come... "un bel cagare non fu mai scritto", che mia mamma si arrabbiava subito.


Lei veniva da un paese talmente insignificante da non avere neanche un nome; si chiamava La Collina, che è come chiamarsi La Montagna, La Pianura, L'Altopiano. Aveva la prima elementare e non riusciva a pronunciare certi dittonghi; diceva vuovo invece di uovo, avtomobile invece di automobile, e chissà perché, tzigaretta. Del suo oscuro paese ricordava una poesiola escrementizia che recitava solo quando era veramente euforica e non pretendeva di insegnarci il romagnolo, se lo teneva per sè.


Mia sorella più grande, che studiava da ragioniera, "passava sopra" a tutto questo - lingue varie, volgarità, aneddoti, disgrazie, zie ossessive, Bot - come se niente la toccasse. Lavorava al cotonificio e studiava ragioneria al serale, non aveva tempo per le bazzecole; in casa era presa sul serio, se voleva una borsetta la mamma faceva resistenza per due o tre mesi poi cedeva, se voleva farsi fare una gonna, purché non fosse nera che invecchia... idem. Era la maggiore, secondo mio papà era una della due teste buone del paese, l'aveva protetta e allevata come voleva lui, proprio. Mia sorella minore invece, che con mio padre non parlava nemmeno, tanto si volevano bene, si rifugiava dalla sorella di mio padre, la famosa zia Gnagne, altra friulana emigrata, che aveva un figlio maschio e avrebbe desiderato anche una femmina ma non poteva permettersela.


Il suo matrimonio era andato a rotoli, viveva in un locale - anche quello... cucina e stanza divisi da una tenda - con il figlio, il gatto e, prima di Pasqua, l'oca inchiodata per l'ingrasso. Era poverissima, vanesia e convinta che il suo risotto alla milanese, senza ossobuco, senza olio e burro, con solo un po' di cipolla tritata, fosse impagabile. Amata senza riserve dalla Gnagne, mia sorella piccola aveva sviluppato un'attrazione per i disgraziati, tanto che in autunno, quando sono arrivati gli sfollati del Polesine, si è innamorata di un alluvionato.


Per noi il momento più bello era la domenica dopo pranzo. Allora la Titti, che viveva con la mamma, la zia e il fratello Alfonso in due locali a pian terreno, finito di mangiare, usciva in cortile e ci chiamava: "Cucciolo, amore, gioia, venite?" e scendevamo tutti a giocare alla lippa, che chiamavano la rella, una specie di cricket, solo che al posto della palla si usa un pezzo di legno che finisce con due punte e è difficile da colpire col bastone, che noi chiamavamo il tarello. Il fratello della Titti, l'Alfonso, quando si arrabbiava con qualcuno lo minacciava così: "Ti tiro la rella e il tarello," e siccome aveva l'erre moscia faceva ridere.
Scendevamo tutti, i piccolini che poi rimanevano in cortile, quelli più grandi che andavano già all'oratorio e quelli che poi andavano dalla morosa o al bar; certe volte eravamo in trenta. Ci piaceva stare insieme, grandi e piccoli; facevamo la nostra bella partita di rella e poi via, ognuno per la sua strada, contento. Smettevamo solo d'inverno.


La Titti aveva un debole per la mia sorella piccola, la chiamava Cucciolo. Forse le faceva tenerezza perchè era sempre triste, a parte quando stava con la zia Gnagne (che poi vuol dire "zia" in friulano). La Titti aveva una faccia strana, irregolare, secondo da che punto la guardavi sembrava un'altra, come quei cuccioli di cane che hanno avuto tanti papà, forse proprio per quello, perchè sua mamma e sua zia firmavano anche il cartellino della trattoria davanti al cotonificio e non avevano il marito. In un appartamento al piano terra di un altro palazzo che dava sul nostro cortile vivevano due parenti della Titti, una famiglia regolare, papà, mamma e due figli, un maschio e una femmina bellissimi, sempre vestiti bene, che non ci davano confidenza. In un monolocale sul mio stesso piano, vivevano una vecchia, sua figlia e suo nipote, anche loro parenti della Titti e anche lì i papà c'erano mica.


Ma lei, che aveva già quattordici anni e certe cose magari le capiva, non si vergognava della sua parentela. Era sempre allegra, cantava come un fringuello e quando ci chiamava per giocare alla rella piantavamo lì di colpo di mangiare. In cortile c'era qualche pugliese, qualche napoletano e qualche veneto - il grosso dei meridionali non era ancora arrivato. I loro figli erano nati qui e parlavano il dialetto bull dog, che a me piace tanto ancora adesso.
Continua






3 comentarios:

Alba Kan dijo...

Ciao Tito...
Che fine ha fatto il blog di Attilio e Cecilia?????

;(

fla.detomin dijo...

Chiuso, chiuso senza spiegazioni.

Elena Bossi dijo...

Buona sera, ho trovato questo blog cercando il significato in italiano della parola "rabelotto" ¿potreste spiegarmi? devo tradurre alla mia lingua, lo spagnolo, ma non riesco a capire bene. Grazie.

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