Sei anni fa, in queste stesse ore, ero in strada assieme a molte migliaia di persone che cercavano di bloccare un colpo di Stato e di salvare la vita del Presidente del Venezuela, prigioniero ed accusato di aver ordinato di sparare sui manifestanti che "invocavano la fine della tirannia".
L'allora unico canale Tv statale era stato chiuso, e il sistema privato della comunicazione ripeteva ossessivamente un unico messaggio: Chavez si è dimesso!
I messaggi sul telefonino, le chiamate degli amici, la comunicazione a voce descriveva un'altra cosa, drammatica: è un colpo di Stato, Chavez è prigioniero, perquisizioni a raffica, arresti, le poche radio comunitarie distrutte o chiuse...
Le prime sinistre avvisaglie di quel che sarà il "ritorno alla democrazia". Del resto, avevo visto con i miei occhi che il capo della corporazione degli industriali si era auto-proclamato Presidente, e con il suo primo decreto-legge scioglieva il Parlamento, chiudeva il potere giudiziario, abrogava la Costituzione.
Aveva attorno a sè una plaudente ed euforica folla di alti papaveri: generali, banchieri, boss delle corporazioni, dame ingioiellate cui il trucco non camuffava accentuate occhiaie, magnati della comunicazione, ambasciatore USA, sindacalisti, accademici, politici rampanti, e la sorprendente presenza di un cardinale benedicente. E del numero uno della conferenza episcopale. Tutti si davano gran pacche sulle spalle e offrivano la fruizione delle costose dentiere alle telecamere di CNN.
Ricevevo chiamate dagli amici di altri città che mi confermavano che la gente era in strada, dappertutto blocchi stradali, concentrazioni attorno alle caserme e basi militari, e una sola richiesta: il Presidente non si è dimesso, deve tornare a Miraflores!
Le TV -nei giorni precedenti- avevano diviso lo schermo in 3 parti:
in uno trasmettevano l'appello del Presidente, senza audio, gesticolante
in un altro, gli appelli no-stop (a reti unificate) dei "leader democratici" che incitavano alla violenza
nel terzo, immagini ripetute all'infinito, dei "pacifici lottatori contro la tirannia".
Ignoravano totalmente le concentrazioni in cui ero presente, e non c'era traccia di quelle di cui mi riferivano via via gli amici di altre città o località della provincia, come la veglia di preghiera degli evangelici.
Poi fu peggio, e le TV private cominciarono a trasmettere solo cartoni animati, full time.
Era segno che le cose cominciavano a prendere un'altra piega: le proteste dilagavano, le cose andavano male per i golpisti. Non c'era dubbio.
Oggi, sei anni dopo, sono convinto che il monopolio mediatico è potente ma non onnipotente; può tergiversare, manipolare, aizzare all'odio, adulterare la realtà, ma non può devire dal suo corso un processo di trasformazione sociale.
Il terrorismo mediatico non è in grado di svolgere la funzione di Partito oligarchico, o di diga di sbarramento contro il corso della trasformazione.
La menzogna è impotente di fronte ad un'alta sensibilità sociale, coscienza critica e
politicizzazione. Il terrorismo mediatico può rappresentare in modo distorto la realtà, però non può produrla nei suoi studi.
La realtà è più forte della sua rappresentazione. La rete orizzontale informativa dei movimenti e delle genti può imbrigliare la piramide dei monopoli, perchè la passione si afferma sull'odio, e l'amore può squarciare l'oscurantismo.
La conferma arriva dall'Argentina, dove in queste settimane l'oligarchia latifondista ha fatto ricorso all'arma di dividere in tre parti lo schermo, ma non ha funzionato.
Tito Pulsinelli
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