jueves, 28 de abril de 2011

Quello che ho visto in Libia

Paolo Sensini *
Sono ormai trascorsi più di due mesi da quando è scoppiata la cosiddetta «rivolta delle popolazioni libiche». Poco prima, il 14 gennaio, a seguito di ampi sollevamenti popolari nella vicina Tunisia, veniva deposto il presidente Zine El-Abidine Ben Ali, al potere dal 1987.
È stata poi la volta dell’Egitto di Hosni Mubarak, spodestato anch’egli l’11 febbraio dopo esser stato, ininterrottamente per oltre trent’anni, il dominus incontrastato del suo paese, tanto da guadagnarsi l’appellativo non proprio benevolo di «faraone». Eventi che la stampa occidentale ha subito definito, con la consueta dose di sensazionalismo spettacolare, come «rivoluzione gelsomino» e «rivoluzione dei loti».
La rivolta passa quindi dalla Giordania allo Yemen, dall’Algeria alla Siria. E inaspettatamente si propaga a macchia d’olio anche in Oman e Barhein, dove i rispettivi regimi, aiutati in quest’ultimo caso dall’intervento oltre confine di reparti dell’esercito dell’Arabia Saudita, reagiscono molto violentemente contro il dissenso popolare senza che questo, tuttavia, si tramuti in una ferma condanna dei governi occidentali
nei loro confronti. Solo il re del Marocco sembra voler prevenire il peggio e il 10 marzo propone la riforma della costituzione.


Due mesi in cui, una volta poste in stand by le vicende di Tunisia ed Egitto, tutti i grandi media internazionali hanno concentrato il loro focus sull’«evidente e sistematica violazione dei diritti umani» (Risoluzione 1970 adottata dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU il 26 febbraio 2011) e sui «crimini contro l’umanità» (Risoluzione 1973 adottata dal Consiglio di Sicurezza il 17 marzo 2011) perpetrati da Gheddafi contro il «suo stesso popolo».


Una risoluzione, quest’ultima, priva di ogni fondamento giuridico e che viola in maniera patente la Carta dell’ONU. Si tratta insomma di un vero e proprio pateracchio giurisprudenziale in cui una violazione ne richiama un’altra: la «delega» agli Stati membri delle funzioni del Consiglio di Sicurezza è a sua volta collegata alla «no-fly zone», che è anch’essa illegittima al di là di come viene applicata, perché l’ONU può intervenire ai sensi dell’articolo 2 e dello stesso Capitolo VII della Carta di San Francisco solo in conflitti tra Stati, e non in quelli interni agli Stati membri, che appartengono al loro «dominio riservato».
Ma questa è storia vecchia: la prima no-fly zone (anch’essa illegale) risale al 1991, dopo la prima guerra all’Iraq, da cui si può far decorrere la crisi verticale del vecchio Diritto Internazionale sostanzialmente garantito dal bipolarismo Est-Ovest scomparso a cavallo tra i decenni Ottanta e Novanta del secolo scorso.


Ma torniamo ai momenti salienti della cosiddetta «primavera araba». Se nel caso tunisino ed egiziano le cancellerie occidentali si erano dimostrate molto prudenti circa i possibili sviluppi politici, economici e militari di questi paesi, con il riacutizzarsi dell’antagonismo storico tra la Cirenaica da un lato, dove si concentrano le maggiori ricchezze petrolifere della Libia, e la Tripolitania e il Fezzan dall’altro, potenze come Francia, Stati Uniti e Regno Unito si trovano subito concordi nel sostenere «senza se e senza ma» i rivoltosi in buona parte composti da islamisti radicali (particolarmente numerosi sarebbero i «fratelli musulmani» provenienti dall’Egitto, gli jihadisti algerini e gli afghani) capeggiati da due alti dignitari del passato governo libico come l’ex ministro della Giustizia Mustafa Mohamed Abud Al Jeleil e dall’ex ministro dell’Interno, il generale Abdul Fatah Younis, oltre che da nostalgici di re Idris I, deposto militarmente da Gheddafi e dagli ufficiali nasseriani il 1° settembre 1969.


O, per essere ancora più precisi, come continua sistematicamente a ripetere il colonnello fin dall’inizio nei suoi accalorati speech alla nazione, una rivolta monopolizzata in gran parte da appartenenti ad «Al-Qāʿida». Già prima che l’insurrezione infiammasse la Cirenaica, tuttavia, manipoli di truppe scelte occidentali, con alla testa gli inglesi dei SAS, operavano segretamente in loco, con lo scopo di addestrare e organizzare militarmente le fila dei ribelli. Contemporaneamente, in maniera non ufficiale, alcuni paesi occidentali, Francia e Gran Bretagna in primis, rifornivano gli insorti di armi e automezzi che avrebbero dovuto consentire loro di marciare vittoriosamente fino a Tripoli.


Così, subito dopo i primi momenti in cui filtrano notizie piuttosto confuse e contraddittorie circa gli sviluppi della situazione sul campo, la Francia, alle ore 17,45 di sabato 19 marzo, due giorni dopo la promulgazione della Risoluzione del Consiglio di Sicurezza ONU 1973, rompe gli indugi e anticipa le mosse della «Coalizione dei volenterosi», in accordo con USA e Gran Bretagna, cui si aggiungono presto Spagna, Qatar, Emirati, Giordania, Belgio, Norvegia, Danimarca e Canada.


Per «proteggere la popolazione civile» di Bengasi e Tripoli dalle «stragi del pazzo sanguinario Gheddafi», il presidente francese Nicolas Sarkozy impone una no-fly zone ma – per carità, questo no – senza alcuna intenzione di detronizzare il «dittatore», ponendosi così di fatto come il capofila con l’operazione «Alba dell’Odissea», che ha portato finora a compimento più di ottocento missioni d’attacco.


È quanto assevera anche l’ammiraglio americano William Gortney, secondo cui il colonnello «non è nella lista dei bersagli della coalizione» pur non escludendo che possa venire colpito «a nostra insaputa». Anche il capo di stato maggiore britannico, sir David Richards, nega che l’uccisione di Gheddafi sia un obiettivo della coalizione perché la risoluzione dell’ONU «non lo consentirebbe».


La scelta degli alleati non può dunque che essere per i «ribelli», così fotogenici nelle riprese mentre sparacchiano in aria con i loro mitragliatori pesanti montati su pick-up a beneficio delle telecamere. Tuttavia la loro entità si è mostrata subito risibile, limitata e di poco peso nel Paese. Anche addestrata e armata fino ai denti, quella degli insorti rischia di rimanere un’armata Brancaleone che continuerà a infrangersi contro lo scoglio rappresentato dall’esercito fedele a Gheddafi, senza oltretutto godere dell’appoggio di larga parte della popolazione. E portare a termine una «rivolta popolare», senza essere sostenuti dall’appoggio del popolo, risulta impresa assai ostica oltre che originale.


Anche l’istituzione su loro richiesta di un fantomatico governo ombra denominato pomposamente Consiglio nazionale di transizione (CNT) e prontamente riconosciuto come legittimo dal ministro degli Esteri italiano Franco Frattini, ha fatto sì che alcuni stati occidentali inviassero ufficialmente elementi di spicco dei propri eserciti con il compito di «addestrare gli insorti». Inoltre è stato reso ufficiale anche il rifornimento di armi e mezzi contro pagamento in petrolio, che prima avveniva segretamente.


La loro forza, come hanno scritto giornalisti inglesi, «sta interamente nel sostegno, politico e militare, di cui godono sul piano internazionale». Quanto a formare un governo funzionante, e soprattutto a conquistare qualche parvenza di vittoria – anche sotto il riparo della no-fly zone – ne sono del tutto incapaci.


Insomma, un’operazione dal sapore epico e romantico soltanto nel nome, ma nella sostanza un attacco militare in piena regola alla sovranità della Gran Jamahiriya Araba Libica Socialista.


I motivi della guerra raccontati dai grandi mezzi di comunicazione
Ma che cosa ha potuto realmente giustificare, al di là delle fumisterie mediatiche che sono state riversate in grandi dosi sulla pubblica opinione, la pretesa di una simile ingerenza armata contro il governo di Tripoli travestita da «intervento umanitario»?


Come sempre accade in simili casi, il tutto ha preso l’abbrivio da una potente campagna mediatica in cui, senza alcuna evidenza di prove ma solo in virtù di una ripetizione a nastro dello stesso messaggio, si è stabilito fin dal principio che «Gheddafi aveva fatto bombardare gli insorti a Tripoli» uccidendo «più di 10.000 persone». Una «notizia» di cui inizialmente si sono fatti latori i due più importanti media del mondo arabo: Al Jazeera e Al Arabiya, considerati una sorta di CNN del Vicino e Medio Oriente. Parliamo quindi d’informazioni provenienti direttamente dall’interno di quel mondo arabo controllato rispettivamente dalle aristocrazie sunnite del Qatar e di Dubai.


Dopo l’iniziale lancio informativo, il numero di «10.000 persone fatte bombardare da Gheddafi» è immediatamente rimbalzato su tutti i media internazionali fino a diventare un «fatto» indiscutibile quasi per postulato, anche se non vi era nessuna immagine o prova tangibile che potesse suffragare una simile carneficina.

A supporto di tale onirismo informativo venivano poi presentate le immagini di supposte «fosse comuni» in cui erano stati seppelliti nottetempo, sempre secondo i corifei della disinformazione di massa, coloro che erano periti sotto i bombardamenti ordinati dal «dittatore pazzo e sanguinario».
Tuttavia, com’è poi emerso quasi subito, si trattava d’immagini fuorvianti e decontestualizzate, visto che ciò che si mostrava al pubblico occidentale erano le riprese di un cimitero di Tripoli dove si espletavano le normali operazioni di inumazione dei deceduti.


Ma come ogni spin doctor sa benissimo, ciò che conta per plasmare l’opinione pubblica è la prima impressione che essa ne riceve, e che imprime il messaggio nel cervello in maniera indelebile. È successo per le narrazioni degli eventi storici più importanti, ultimo dei quali è senz’ombra di dubbio il capolavoro spettacolare passato alla storia come gli «attentati terroristici di Al-Qāʿida dell’11 settembre 2001».


Non poteva dunque che essere così anche in questo caso, dove la prima versione mediatica propalata con solerzia gobbelsiana ha ripetuto in continuazione la favola dei «10.000 morti» e del «genocidio» compiuto dal «dittatore pazzo e sanguinario» senza nessuna evidenza di prove, ma facendo leva unicamente sulla pura e ininterrotta circolazione dello stesso messaggio.


Fin da quei primi momenti, il mantra recitato infinite volte nelle redazioni del Big Brother è stato unicamente questo, diventando da subito la Versione Ufficiale. Non vi era più dunque nessuno spazio residuo per il dubbio, almeno sui grandi circuiti dell’informazione, giacché il fatto conclamato s’imponeva da sé, quasi per motu proprio. Il resto era solo dietrologia o, horribile dictu, nient’altro che «complottismo».


Un altro elemento che ha giocato un ruolo decisivo, anche in termini di avallo dei conflitti bellici degli anni passati, è stata poi la pressoché totale adesione della «sinistra» in quasi tutte le sue declinazioni – da quella moderata fino alle propaggini più estreme – alla Versione Mediatica Ufficiale, che nel caso italiano comprendeva anche la voce infondata su ipotetici «campi di concentramento» o «lager» destinati agli immigrati neri provenienti dalle zone subsahariane. Una specie di riflesso pavloviano che ha portato, senza alcun tipo di vaglio o discernimento critico e, cosa ancora più grave, senza neppure porsi la questione di chi fossero realmente «gli insorti di Bengasi», a fornire una sorta di tacito avallo alle operazioni dei manovratori. Il che, di fatto, ha agevolato la strada a quei poteri internazionali che lavoravano da tempo per un intervento militare contro la Libia.


Partenza per la Libia
Per tutte queste ragioni, o forse sarebbe meglio dire per la mancanza di esse, una volta offertami la possibilità dal tenore Joe Fallisi di recarmi a Tripoli per verificare insieme a un gruppo di autentici «volenterosi» denominati The Non-Governmental Fact Finding Commission on the Current Events in Libya come stavano realmente le cose, non ci ho pensato due volte e ho deciso immediatamente di prender parte alla spedizione.


Dopo essere arrivati nel tardo pomeriggio del 15 aprile a Djerba con un volo da Roma in ritardo di più di tre ore sull’orario prefissato, il viaggio in territorio libico ci ha presentato subito la dura realtà di uno scenario militare costellato da centinaia di posti di blocco che coprivano l’intero tracciato dal confine tunisino fino a Tripoli. Ma una volta giunti alle porte della capitale il contesto che si profilava angoscioso in quelle prime lunghe ore di viaggio muta di colpo in uno scenario di piena normalità.

E anzi troviamo una metropoli perfettamente in ordine, bella, molto ben tenuta e senza alcun segno tipico di uno stato di guerra incipiente. Già questo primo impatto contraddiceva in nuce i racconti dei giornalisti embedded che avevano descritto con sussiego gli scenari caotici, foschi e sanguinolenti delle «stragi» volute dal raìs.


La prima sensazione che ho avuto la mattina del 16 aprile mentre attraversavamo le strade di Tripoli diretti verso il Sud-Est del paese, è stata quella di un forte appoggio popolare nei confronti di Gheddafi, un appoggio pieno, passionale e incondizionato, e non certo di «risentimento e ostilità della popolazione» nei suoi confronti come strillavano da settimane i media. Del resto, come fa giustamente rilevare l’analista politico Mustafà Fetouri, «una delle conseguenze inattese dell’intervento militare in Libia è quella di aver rafforzato la credibilità del regime conferendogli ancora più forza e legittimità nelle zone sotto il suo controllo. In più ora, dopo l’aggressione, ha ripreso massicciamente a battere il vecchio tasto sull’antimperialismo».


Arrivati nella città di Bani Waled, a circa 125 km a sud di Tripoli all’interno di un vasto distretto montagnoso, la nostra delegazione viene accolta calorosamente dai responsabili della locale Facoltà di ingegneria elettronica. Questo territorio ospita la più grande Tribù della Libia, i Warfalla o Warfella, che con i suoi 52 Clan e all’incirca un milione e cinquecentomila effettivi rappresenta la più grande Tribù della Tripolitania, dove si trova il 66 per cento della popolazione libica (nella Cirenaica vive il 26-27 per cento, il resto è nel Fezzan), estendendosi anche nel distretto di Misratah (Misurata) e, in parte, in quello di Sawfajjn.


Ci rechiamo poi nella piazza centrale della città, dov’è in corso una manifestazione contro l’aggressione della Coalizione occidentale nei confronti della Libia. Qui la sensazione avvertita qualche ora prima attraversando la capitale diventa realtà palpabile, e le dimostrazioni d’appoggio incondizionato a favore del leader libico non danno adito ad alcun possibile fraintendimento. Lo slogan che ci accompagna lungo tutto il nostro percorso è Allah – Muʿammar – ua Libia – ua bas! (Allah, Gheddafi, Libia e basta!), che è diventata una specie di colonna sonora scandita un po’ dovunque.

Mentre, tra i nemici della Libia, Sarkozy è senz’altro quello più preso di mira e contro il quale si indirizzano la maggior parte degli sberleffi («Down, down Sarkozy!»). Seguono poi gli altri leaders occidentali che si sono distinti nell’aggressione «umanitaria», come il surrealistico Premio Nobel Barck Obama, soprannominato per l’occasione U-Bomba, e via via tutti gli altri.


Veniamo poi condotti in un ampio complesso abitativo circondato da mura, dove siamo accolti dai capi Tribù dei Warfalla, tutti quanti fasciati nei loro tradizionali abiti. Aiutati da interpreti ma anche da un anziano capo clan che parla un buon italiano, ci viene ribadita la stretta alleanza della tribù con Gheddafi e la loro completa determinazione a lottare, nel caso malaugurato fossero invasi militarmente, «fino alla fine». «Se decidessero di invadere la Libia, sapremo noi come rispondere», ci dice uno dei capo tribù brandendo in alto con le sue nodose mani un fiammante kalashnikov.

Non c’è nessuna tracotanza nelle sue parole, ma solo la fermissima determinazione a non permettere che il loro paese venga gettato nel caos così com’è avvenuto per il Kosovo, l’Afghanistan e l’Iraq, che dall’occupazione militare anglo-americana sono diventati forse i luoghi più pericolosi della terra e in cui si può morire semplicemente andando al mercato, a un ristorante, in banca o anche solo camminando per strada. Questi i «risultati» a quasi un decennio dai primi interventi umanitari e dalle conseguenti operazioni di Peacekeeping, che oggi qualche zelante «esportatore di democrazia» vorrebbe replicare pure in Libia…


Dovunque ci si muova, sia a Tripoli che nelle sue immediate periferie, la domanda che ci viene continuamente rivolta dalle persone con cui veniamo in contatto è la seguente: «Perché Francia, Inghilterra e Stati Uniti ci bombardano? Che cosa gli abbiamo fatto? Perché l’Italia, dopo aver stipulato col nostro paese un trattato di amicizia e di non aggressione, ci ha fatto questo?». Domande sacrosante, a cui le aggressioni militari anglo-americane degli anni scorsi forniscono una risposta fin troppo scontata.


Nei giorni successivi continuiamo le nostre esplorazioni visitando scuole di vario ordine e grado a Tripoli e dintorni, dove ritroviamo le stesse manifestazioni di appoggio e partecipazione. Ciò che stupisce in questi ragazzi, che la stampa occidentale vorrebbe dipingere come scarsamente «emancipati» rispetto ai nostri selvaggi con telefonino, è la piena consapevolezza di ciò che sta avvenendo ai danni del loro paese e il pericolo che incombe sulle sorti della Libia nel caso venisse invasa militarmente. Ma nei loro volti non vi è nessuna arrendevolezza o rassegnazione al fato, quanto invece una ferma volontà di resistere «con ogni mezzo». E anche la voglia di tramutare la pesantezza delle circostanze, per quanto possibile, in momenti di passione condivisa.


Dai sobborghi di Tripoli, dove incontriamo le persone sulle strade, nelle loro abitazioni o sui luoghi di lavoro, passando per i medici feriti durante i bombardamenti e attualmente degenti in ospedale fino agli assembramenti nel cuore pulsante della città, dovunque è la stessa disposizione d’animo verso la leadership del proprio paese e la situazione che, giorno dopo giorno, viene angosciosamente profilata dai bollettini radio-televisivi.


Unico elemento davvero anomalo e per molti versi stupefacente, soprattutto perché stiamo parlando di uno dei grandi paesi produttori di petrolio al mondo, sono le file di chilometri e chilometri di automobili incolonnate ai bordi delle strade, e che cominciano già a formarsi nelle prime ore della notte, in attesa del proprio turno di rifornimento alle stazioni di servizio. Anche questo è un paradosso, uno dei tanti paradossi insensati di cui ogni guerra è prodiga.


Muovendoci in lungo e in largo per la capitale non riscontriamo nessun segno di bombardamenti contro la popolazione libica da parte di Gheddafi, che è poi il motivo scatenante per cui sono state promulgate le due Risoluzioni ONU che hanno di fatto aperto la strada all’aggressione militare. Eppure per fare più di «10.000 morti», soprattutto quando si parla di bombardamenti in una grande città come Tripoli, bisogna necessariamente aver prodotto gravi danni urbanistici e lasciato quantità e quantità di indizi disseminati per le strade. Ma questo è un dettaglio che poco importa ai signori dell’informazione: ciò che conta è il panico virtuale creato ad arte, che però sta già sortendo effetti concretissimi.


Gli unici riscontri tangibili di bombardamenti li troviamo invece in alcune località non distanti dai sobborghi di Tripoli, a Tajoura, Suk Jamal e Fajlum, dove a seguito di ripetuti bombardamenti NATO hanno trovato la morte oltre quaranta civili. Lo verifichiamo direttamente in loco, quando ci rechiamo nella fattoria in cui sono state sganciate alcune bombe che hanno causato ingenti danni agli edifici prospicienti, e in cui sono ancor ben visibili i frammenti degli ordigni deflagrati. Ne avremo convalida all’ospedale civile di Tajoura, dove ci vengono mostrati dalle autorità mediche i documenti ufficiali che attestano i decessi causati dalle bombe sganciate dalla Coalizione.


La conferma ufficiale della situazione che si è venuta determinando sul terreno ce la fornisce in un incontro all’Hotel Rixos anche Moussa Ibrahim, portavoce del governo libico, che ci illustra la posizione del governo a questo proposito. Dopo aver tracciato un quadro sugli sviluppi bellici e diplomatici negli ultimi due mesi, Ibrahim si domanda perché gli organismi internazionali preposti non abbiamo consentito, prima di dare inizio ai bombardamenti, l’invio in Libia di una missione d’inchiesta per verificare i fatti, come richiesto da Gheddafi a più riprese, e accertare di persona i seguenti punti: 1) la reale dinamica dei fatti su come è nata la ribellione, fin da subito armata; 2) quali sono i suoi veri obbiettivi, se per caso anche secessionisti al di là della bandiera prescelta e del suo apparente leader, l’ex ministro della Giustizia libico Jelil; 3) chi ha bombardato cosa; 4) fino a che punto e attraverso quali canali i ribelli si sono armati; 5) quante sono le vittime civili dei presunti bombardamenti di Gheddafi e di quelle dei cosiddetti “volenterosi”, e così via.


«Eppure – insiste Ibrahim – l’invio in Libia di una simile delegazione per verificare come stanno veramente le cose avrebbe avuto un costo inferiore a quello di un singolo missile da crociera Tomahawk, e di questi missili ne sono stati gettati oltre 250 in questi giorni. Perché questa ipocrisia dell’Occidente nei nostri confronti? Perché non è stata imposta una no-fly zone anche a Israele quando ha bombardato Gaza per oltre un mese senza che nessun paese avesse nulla da eccepire? Perché due pesi e due misure, quando è ormai stato appurato che non abbiamo mai bombardato, e lo ribadisco in maniera fermissima, la nostra popolazione».


Ma una commissione internazionale di osservatori, nonostante le reiterate richieste da parte delle autorità libiche, non è mai stata inviata e si è continuato a salmodiare l’ormai trita versione del «dittatore sanguinario Gheddafi» bombardatore e oppressore del «suo stesso popolo». L’Occidente, o quel ristretto novero di paesi che si è arrogato abusivamente il diritto di parlare a nome del mondo intero, ha anche rifiutato l’offerta di Chavez di fare da mediatore per la Libia, nonostante essa fosse sostenuta da molti paesi latino-americani e dalla stessa Unione Africana.


Possiamo verificare di persona la sera del 17 aprile a Bāb al ‘Azīzīyah, la residenza-bunker di Gheddafi, quanto siano fuorvianti le informazioni che circolano sui grandi media occidentali a proposito della popolarità di Gheddafi tra la gente di Tripoli e più in generale della Libia; nonostante gli strettissimi controlli delle forze di sicurezza, siamo gli unici occidentali a poter aver accesso al parco antistante il bunker del raìs. Lo spettacolo che si apre davanti ai nostri occhi entrando nel parco dove si trova la vecchia abitazione di Gheddafi bombardata dagli americani il 15 aprile 1986 – in cui tra l’altro perse la vita sua figlia adottiva Hana – e lasciata volutamente in quello stato a mo’ di testimonianza storica, contraddice al primo colpo d’occhio le versioni propagandistiche circolanti in Occidente.

Qui ogni sera, da quando sono iniziati i «bombardamenti umanitari» contro la Jamahiriya Araba Libica, va in scena un grande happening animato da migliaia di persone, dai neonati per cui è approntato un ampio kindergarten fino agli anziani che si ritrovano con i loro narghilè sotto una tenda ricolma di cuscini e tappeti. Un grande palco montato davanti alla vecchia casa del colonnello è il proscenio sul quale si alternano musica, parole, proclami e intrattenimento per riscaldare un’atmosfera che si fa di giorno in giorno sempre più plumbea.


Il senso vero di questo assembramento, di cui i mezzi di comunicazione occidentale si guardano bene dal dare conto, «è la vicinanza e l’affetto dei libici nei confronti di brother Gheddafi», come mi spiega un giovane e colto ingegnere elettronico che ci guida lungo tutta la nostra visita; un «fratello e un padre» verso il quale è percepibile l’affetto che gli è tributato dalla sua gente. Per questo si ritrovano lì tutte le sere, per fargli sentire con la loro viva presenza tutto il calore e far scudo con i loro stessi corpi a nuove possibili incursioni dopo quella del 21 marzo 2011, incursioni ripetute anche la sera del 25 aprile, quando un edificio adibito ad uso uffici situato nel complesso di Bāb al ‘Azīzīyah è stato distrutto da un missile da crociera Tomahawk lanciato da un sottomarino della Royal Navy su coordinate fornite dalle forze speciali di Londra infiltrate anche nella capitale.


L’ultimo appuntamento con membri del governo è con il vice ministro degli Esteri, Khaled Kaim, che con grande dovizia di particolari ripercorre istante per istante gli sviluppi della crisi, dalla presenza riscontrata fin dall’inizio dalle autorità libiche di vari elementi dei «fratelli musulmani» e altri jihadisti stranieri tra i «rivoltosi di Bengasi», alla strana sincronia con cui, il 26 febbraio, il personale di diverse ambasciate presenti a Tripoli è partito senz’alcuna spiegazione plausibile, fino alle ragioni geopolitiche che hanno fatto sì che la Libia diventasse un obbiettivo appetibile per le mire occidentali già da molti anni.


Kaim ci mette anche a disposizione tutto il materiale video e le rassegne stampa internazionali che coprono interamente la sequenza temporale presa in esame, in modo da poterle vagliare nella sua ampiezza per poi emettere un giudizio obiettivo sui fatti. Il suo auspicio, rivolto idealmente all’opinione pubblica occidentale, è quello di non farsi ipnotizzare dall’informazione ad usum delphini diffusa in questi mesi dai grandi media, ma di guardare la sostanza del contenzioso tra governo e «ribelli» che comunque, secondo la sua valutazione dell’intervento militare NATO nelle questioni interne libiche, ha reso più complicato e dilazionato nel tempo un possibile processo di pacificazione nazionale.


Non ci resta, prima di congedarci, che incontrare l’ultima personalità di rilievo in programma sulla nostra agenda, Monsignor Giovanni Martinelli, il vescovo di Tripoli, uno degli ultimi tra gli italiani rimasti in città dopo l’esplosione della crisi che, insieme alla combattiva rappresentante di import-export italo-libica Tiziana Gamannossi, ci conferma nel corso del colloquio quanto già avevamo accertato durante la nostra missione d’indagine: ossia che «il governo libico non ha bombardato la sua popolazione, ma che gli unici morti a causa dei bombardamenti sono stati provocati dalla NATO a Tajoura; che l’unica possibile soluzione del contenzioso è il dialogo, non le bombe»; che «i ‘ribelli di Bengasi’ si sono macchiati di gravi crimini gettando il paese nel caos».


Martinelli aggiunge anche che l’attacco militare alleato nei confronti della Libia è ingiusto e sbagliato sia da un punto di vista tattico che da quello strategico, perché «le bombe rafforzeranno Gheddafi e gli permetteranno di vincere». Il suo è un giudizio ponderato e sofferto, espresso tra l’altro da un uomo che non nutre nessun favore aprioristico nei confronti del colonnello, ma del quale riconosce con equilibrio meriti e demeriti nella sua conduzione del paese.

 «Un uomo dal carattere fortissimo e deciso – soggiunge padre Martinelli – che ha favorito, da quando ha iniziato la sua opera di governo, la libertà di movimento, la libertà politica, la libertà religiosa e che ha permesso che in Libia convivessero pacificamente ben cinque confessioni religiose». «In oltre quarant’anni – conclude il vescovo di Tripoli congedandosi da noi –, non ho mai subito alcuna provocazione da parte di nessuno, e la nostra comunità convive serenamente con tutte le altre. Trovatemi un altro luogo in cui tutto ciò sia possibile». E come dargli torto, visto il panorama attuale del Vicino Oriente.


Se in effetti vogliamo guardare la sostanza e non la propaganda bellica che alligna stabilmente sui media ai danni della Libia, l’aspettativa di vita dei suoi abitanti si aggira intorno ai 75 anni di età, un vero record considerando che in alcuni paesi del continente africano la media si aggira intorno ai 40 anni. Quando Gheddafi prese il potere, il livello di analfabetismo in Libia era del 94 per cento, mentre oggi oltre il 76 per cento dei libici sono alfabetizzati e sono parecchi i giovani che frequentano università straniere.

La popolazione del paese, al contrario dei vicini egiziani e tunisini, non manca di alimenti e servizi sociali indispensabili. Prima dell’attacco franco-britannico, inoltre, era stato varato dal governo libico un programma di edilizia popolare agevolata in cui erano stati investiti oltre due miliardi di dinari, che doveva portare alla costruzione di circa 647 mila case in tutto il paese per una popolazione complessiva di sei milioni di abitanti. Un progetto che naturalmente ora è fermo, e che verrà riavviato – se mai lo sarà – chissà quando.


A questo punto il quadro che abbiamo davanti ai nostri occhi ha assunto dei contorni piuttosto delineati; sarebbe interessante proseguire verso la parte orientale del paese, dove si stanno consumando gli scontri più aspri, ma per ragioni di sicurezza ci viene vivamente sconsigliato di intraprendere un simile viaggio. Anche così, tuttavia, vi sono gli elementi necessari per capire che le Risoluzioni 1970 e 1973 promulgate dal Consiglio di Sicurezza sono destituite di ogni fondamento. E dunque che le ragioni di questo intervento armato vanno ricercate altrove.


L’incarico di riferire minuziosamente tutto ciò che è stato raccolto nel corso della missione viene affidato a David Roberts, portavoce del British Civilians For Peace in Libya, durante la conferenza stampa aperta a tutti i media internazionali presenti a Tripoli che si tiene nel lussuoso Hotel Rixos, in cui viene anche proiettato sullo schermo un documentario montato a tempo di record dal bravo videoreporter e attivista inglese Ishmahil Blagrove; la conferenza stampa è anche l’occasione per rendere noti ai media tutti i documenti, i riscontri probatori e le evidenze raccolti dalla «Fact Finding Commission» durante le sue indagini. Dopo l’esposizione dei risultati cui la commissione è pervenuta, si procede a evidenziare tutte le omissioni e le manipolazioni vere e proprie compiute dai media fin dall’inizio della guerra.


La cosa non è affatto gradita ad alcuni giornalisti e mezzobusti delle grandi testate inglesi e americane presenti in sala, i quali sentendosi chiamati in causa per le evidenti distorsioni a cui si erano prestati durante i loro servizi informativi e che le nostre ricerche sul campo mettevano giustamente a nudo, reagiscono in maniera indispettita e rabbiosa negando di aver compiuto un «lavoro sporco» e assicurando anzi di aver scrupolosamente fornito tutte le informazioni in loro possesso.


Una patente menzogna, visto e considerato che con i nostri pochi mezzi a disposizione avevamo quasi totalmente decostruito il castello montato per aria, è proprio il caso di dire, nei mesi precedenti. E che per un attimo, ancora infervorato da ciò che avevo visto e udito in quei giorni, ho pensato di comunicare alla zelante bombardatrice della Libia Anna Finocchiaro, capogruppo al Senato del PD, che sedeva una fila dietro di me sull’aereo che mi riconduceva da Tunisi a Roma. Ma sarebbe stata tutta fatica inutile, mi sono poi subito detto, vista la determinazione assunta in prima persona dalla “sinistra” etimologica nel condurre a un punto di non ritorno questa sporca guerra.


Come notava invero il grande scrittore Mario Mariani, «i giornalisti e i politici non debbono intendersi di niente e debbono far conto d’intendersi di tutto». L’unica cosa che davvero conta per essi, è quella di possedere un buon fiuto per sapere in quale direzione is Blowing the Wind…


Le vere ragioni della guerra alla Libia
Ecco che così, a poco a poco, dopo aver verificato in prima persona come stavano realmente le cose sul posto, e grazie alla rete e ai molteplici siti o blog interessati a fare vera informazione e non propaganda, incominciavano a farsi largo analisi serie e documentate sull’eziologia dei fatti libici. E si facevano sempre più strada quelli che, verosimilmente, sembravano i reali motivi di un intervento occidentale contro la Libia pianificato da tempo. Ossia, in primo luogo, impossessarsi degli enormi giacimenti di petrolio libici, stimati in circa 60 miliardi di barili e i cui costi di estrazione sono tra i più bassi del mondo, senza contare le enormi riserve di gas naturale valutate in circa 1.500 miliardi di metri cubi.


Ma non è tutto. Dal momento in cui Washington ha cancellato la Libia dalla lista di proscrizione degli «Stati canaglia», Gheddafi ha cercato di ricavarsi uno spazio diplomatico internazionale con ripetuti incontri in patria e nelle maggiori capitali europee. Nel 2004, per esempio, Tony Blair, allora Primo Ministro britannico, è stato il primo leader occidentale a recarsi in Libia, divenuta così frequentabile. E nel dicembre 2007 Parigi si è presa la briga di stendere il tappeto rosso nel parco del Marigny Hotel, dove il colonnello aveva piantato la sua tenda. Cosa è cambiato da allora per giustificare l’accanimento di Gran Bretagna e Francia contro il regime di Tripoli quando prima andavano d’amore e d’accordo?


La risposta è stata data dal quotidiano statunitense «The Washington Times». Questo stesso giornale ha rivelato lo scorso marzo che sono i 200 miliardi di dollari dei fondi sovrani libici a fare andare in fibrillazione gli occidentali. Perché tale è il denaro che circola nelle banche centrali, in particolare in quelle britanniche, statunitensi e francesi. In preda a una crisi finanziaria senza precedenti, Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti vogliono a tutti i costi impossessarsi di questi fondi sovrani. «Queste sono le vere ragioni dell’intervento della NATO in Libia», afferma Nouredine Leghliel, analista borsistico algerino trasferitosi in Svezia, che è stato uno dei primi esperti a sollevare la questione.

Questi 200 miliardi di dollari, di cui gli occidentali non parlano che a mezza voce, sono al momento «congelati» nelle banche centrali europee. Il motivo? Che questa vera e propria montagna di denaro sia associata alla famiglia Gheddafi, «cosa che è totalmente falsa», come sottolinea Leghliel, il che però autorizza i pescecani della finanza decotta internazionale a voler stornare il gruzzolo nei loro caveau.


«Più continua il caos, più la guerra dura e più gli occidentali traggono profitto da questa situazione che torna a loro vantaggio», chiarisce ancora Leighliel. Il caos nella regione farebbe comodo a tutto l’Occidente. I britannici, soffocati dalla crisi della finanza, troverebbero così le risorse necessarie. Gli statunitensi, per mire squisitamente militari, si installerebbero in modo definitivo nella fascia del Sahel e la Francia potrà ricoprire il ruolo di subappaltatore in questa regione da lei considerata come una sua appendice.


L’assalto ai fondi sovrani libici, com’è facilmente prevedibile, avrà un impatto particolarmente forte in Africa. Qui la Libyan Arab African Investment Company ha effettuato investimenti in oltre 25 paesi, 22 dei quali nell’Africa subsahariana, programmando di accrescerli nei prossimi cinque anni soprattutto nei settori minerario, manifatturiero, turistico e in quello delle telecomunicazioni.

Gli investimenti libici sono stati decisivi nella realizzazione del primo satellite di telecomunicazioni della Rascom (Regional African Satellite Communications Organization) che, entrato in orbita nell’agosto 2010, permette ai paesi africani di cominciare a rendersi indipendenti dalle reti satellitari statunitensi ed europee, con un risparmio annuo di centinaia di milioni di dollari.


Ancora più importanti sono stati gli investimenti libici nella realizzazione dei tre organismi finanziari varati dall’Unione africana: la Banca africana d’investimento, con sede a Tripoli; il Fondo monetario africano (FMA), con sede a Yaoundé, la capitale del Camerun; la Banca centrale africana ad Abuja, la capitale nigeriana. Il Fondo sarà finanziato principalmente da Paesi africani e, a quanto si è appreso, l’Algeria darà 14,8 miliardi di dollari USA, la Libia 9,33, la Nigeria 5,35, l’Egitto 3,43 e il Sud Africa 3,4.


La creazione del nuovo organismo è (o era) ritenuta una tappa cruciale verso l’autonomia monetaria del continente. Infatti, secondo le Nazioni Unite per l’Africa, il peso sulla bilancia commerciale mondiale africana si è contratto notevolmente negli ultimi venticinque anni, passando dal 6 al 2 per cento; effetto dovuto, sempre secondo le Nazioni Unite, alla presenza di una cinquantina di monete nazionali non convertibili tra di loro.
Ciò rappresenterebbe un freno agli scambi commerciali tra gli stati africani, perciò il principale compito del FMA è promuovere gli scambi commerciali creando il mercato comune africano. Un passo necessario alla stabilità finanziaria e al progresso dell’economia del continente che decreterebbe inoltre la fine del franco CFA, la moneta che sono costretti a usare 14 paesi, ex-colonie francesi.


Quanto appena esposto potrebbe essere la vera ragione, o una delle maggiori motivazioni, che hanno causato l’intervento armato, occulto prima, dichiarato ed esplicito dopo, delle vecchie potenze coloniali del Continente Nero: Francia, Regno Unito e Stati Uniti. Comunque sia, il congelamento dei fondi libici e la conseguente guerra assestano un colpo durissimo all’intero progetto.


Ma se l’Occidente vuole veramente cacciare Gheddafi per appropriarsi della Libia e delle sue risorse, dovrà rassegnarsi presto a cambiare strategia. In altre parole dovrà far scendere i propri eroici soldati dagli aerei e dalle navi, dove bombardano comodamente seduti con in mano il joystick della playstation e mandarli in terra di Libia, a combattere, ammazzare e venire a loro volta ammazzati.
 
A quel punto sarà tuttavia necessario gettare la maschera, evitare di nascondersi dietro il pretesto di «interventi umanitari», manifestare apertamente le proprie ambizioni e accettare la fila di bare che tornano a casa ogni settimana. Ma ne saranno capaci, dopo che il mondo assiste sbigottito all’impantanamento a cui sono costrette le più grandi potenze militari della storia dopo un conflitto che dura da più di dieci in Afghanistan e Iraq?
 
* Saggista e scrittore, ha recentemente pubblicato Il 'dissenso' nella sinistra extraparlamentare italiana dal 1968 al 1977 (Rubbettino, Soveria Mannelli 2010). Ha curato l'edizione delle principali opere di Bruno Rizzi, di Ante Ciliga, del filosofo Josef Dietzgen e di Sergej Mel´gunov.

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