Balboa - in Spagna, prove di invasione militare da parte di Stati uniti e Nato -, fino al presidente Barack Obama che nel 2015 considerava il nostro paese “una minaccia inusuale e straordinaria” per la sicurezza degli Stati Uniti e la loro politica estera.
Perché questa mia conclusione? Prima di tutto, per la presenza di Trump
alla guida degli Usa, con l’appoggio dei settori più reazionari e imprevedibili
della politica di quel paese, capaci di creare crisi importanti simultaneamente
in Venezuela e nella penisola coreana. E non è solo la presenza di Trump, ma le
sue parole, le sue minacce concrete.
Queste condizioni, ovviamente, in sé non sarebbero sufficienti a
confermare la gravità della situazione. Ma nella regione si sono verificati
cambiamenti importanti. Non possiamo più contare su Lula o Dilma in Brasile, né
sui Kirchner in Argentina, e in Ecuador non c’è più Correa. Sono assenze non da
poco per lo sviluppo dei piani di Washington nei confronti del Venezuela.
Aggiungiamo la creazione del gruppo di Lima come strumento che segue fedelmente
le linee tracciate dagli Stati uniti nella loro ossessione contro il nostro
paese.
E, come se non bastasse, la politica dell’Unione europea segue
pedissequamente come non mai le azioni e decisioni di Washington nei confronti
del Venezuela. E certamente vari paesi della regione obbediranno all’ordine
recente di non riconoscere i risultati delle elezioni che si terranno il 22
aprile. Non è da scartare l’ipotesi che, a certe condizioni, si approfitti della
nuova correlazione di forze in seno all’Organizzazione degli Stati americani
per sancire la rottura delle relazioni con il Venezuela, come fecero a suo
tempo con Cuba.
Sul piano militare, il comando Sud continua a essere un fattore
fondamentale in ogni azione, insieme al riordinamento delle sette basi miliari
in Colombia, controllate dagli Stati uniti; e in particolare quella di
Palanquero. Aggiungiamo la recente decisione del governo di Panamá di
autorizzare a partire da luglio l’arrivo di 415 militari dell’aviazione Usa!
Davanti a un panorama così
guerrafondaio, è da immaginare che i falchi che guidano la politica estera di
Washington siano arrivati alla conclusione che il momento propizio è arrivato;
ma poi di certo sono subentrati i dubbi. Per esempio, quale sarebbe la reazione
dei popoli latinoamericani, e anche altrove nel mondo? Fin dove si potrebbe
spingere l’impegno della Cina sancito nell’accordo di “sicurezza e difesa”
firmato di recente con il Venezuela? E la Russia? E i cubani, cosa farebbero? E
i paesi dell’Alba, che da un mese sono riuniti in permanenza? Sulla base di
queste domande, chi può garantire il successo di un’invasione militare?
L’unione civico-militare per la prima volta si è espressa anche in
esercitazioni congiunte, e il popolo in precedenza non aveva la capacità di
organizzazione e la coscienza nazionale alla quale è giunto. Gli Usa
considereranno una fanfaronata l’avvertimento di Diosdado Cabello: si sa in
quali condizioni arriveranno i soldati di Washington ma non si sa in quali
condizioni se ne andranno?
In questo contesto, il comportamento del presidente Usa è così
ossessivo che, anche qualora l’invasione militare fosse scartata, l’aggressione
continuerebbe, con il rafforzamento delle misure economiche e finanziarie che
già si stanno applicando, con l’aggiunta dell’embargo sul petrolio; il tutto con
il sostegno dei media, come Ap, Reuters, Afp, Efe, e dei telegiornali di mezzo
mondo, il solito circo mediatico nel quale dominano le menzogne e le notizie
prive di fondamento, insieme all’occultamento della verità.
Qualunque politica Trump applicherà rispetto al Venezuela, abbiamo a
disposizione un’unica risposta: resistere, affrontare le minacce nella maniera
più organizzata possibile e consapevoli che, dall’interno, una minoranza
appoggerà l’aggressione e alzerà il telefono per ricevere l’ordine di non
andare a votare e di disconoscere il risultato del voto.
E. Dìaz Rangel, direttore del quoridiano Ûltimas Noticias di Caracas
traduzione di Marinella Correggia
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