jueves, 14 de febrero de 2013

L'educazione dei padri gesuiti (1/4)


Dopo "Il pensiero molle" e "Il boom" pubblichiamo  un altro racconto lungo 
di Martino Fausto Rizzotti - Il temporale  si avvicinava  e il torrente ingrossava a vista d'occhio. Alle cinque del pomeriggio un argine cedette e un piccolo appezzamento di terreno fu inghiottito dalle acque. Sulla collina che sovrastava il seminario, un giovane che si riparava dalla pioggia con un sacco di juta scoppiò a ridere "Gli sta bene - pensò - a quei pretacci",  poi si gettò per la discesa pattinando nel fango. Agitava una valigia verde. Dalla sua finestra al primo piano del seminario Padre Padovan  gli fece un cenno di saluto. Il giovane rispose con un gesto osceno poi gridò:


"Pader, lader! Paaaa-der laaaa-der!" e riprese la sua corsa verso la stazione.
Padre Padovan si precipitò al suo inseguimento sibilando: "Brucerà nelle fiamme dell'inferno!" ma quello era già scomparso. Arrivato in cortile il gigantesco sacerdote scivolò e cadde in una pozzanghera. "Ah, - sospirò - un tempo non mi sarebbe scappato, quel demonio, ma a sessant'anni...". 
Un tuono fece  tremare il seminario. Nella sua stanza al secondo piano, Padre Richetti si allontanò dalla finestra e, fatti due passi, allungò timidamente una mano verso la testa di un ragazzo inginocchiato.
   "Hai finito la penitenza?", chiese. 
   "Sì" rispose il ragazzo.
   "Adesso vieni qui."
Il Padre lo fece sedere sulle sue ginocchia.   "In te io vedo Gesù ". Lo baciò sulla guancia e lo spinse via. "Va' a studiare! Corri!" poi si lasciò cadere sull’inginocchiatoio e sospirò, sconvolto: “Madonna, aiuta il tuo fedele servitore”. Un fulmine illuminò la collina, il tuono fece tremare i vetri delle finestre. Si affrettò a chiudere le imposte. La luce si spense, si ritrovò al buio. "Madonna, - pregò - accorri. Lo spirito è forte ma la carne è debole...". Si sedette alla scrivania, abbattuto, sfiorò quasi con vergogna il libricino che aveva redatto per i suoi figli spirituali, ad ogni pagina un consiglio su come acquisire "nuovi abiti".

 Padre Padovan si lavò le mani nel bagno dei Fratelli, a pian terreno, poi salì al primo piano. Arrivato nella sua stanza si cambiò la tonaca e s’inginocchiò. “O Signore, - pregò - proteggici dalla cupidigia degli uomini, aiuta i tuoi soldati, perdona il tuo popolo attratto dal mondo e dalle sue pompe". Tuttavia non riuscì a controllare la sua ira: "Quel Nuccio! -  rimuginava, - un mezzadro ozioso,  sfrontato  che non esitava a gridare, davanti ai padri: “A Nandoooo, fa mia sfòòòrs!” Incitava sfrontatamente i suoi colleghi all'ozio e alla sedizione, lui, addirittura davanti ai suoi padroni! E mai che si vedesse in chiesa! Tutta colpa dei parenti emigrati che, nel loro italiano sgangherato, scrivevano: aperto 3 ristorante, gli inglesi... ci piacciono le nostre cotolette d'agnello, vieni, qui lavoro buono. 

Lettere che non contenevano mai un soldo per la chiesa del villaggio, la loro chiesa, dove erano stati battezzati, comunicati, cresimati soldati di Cristo, dove si erano sposati,  la loro chiesa che cadeva a pezzi. Uomini di poca fede, abbandonavano l'onesto lavoro dei campi, lasciavano la loro parrocchia deserta. Però fornicavano, ah, se fornicavano! Lo sapeva bene lui, glielo cavava di bocca… “Però alla festa di S. Cristoforo, quei pagani, questi adoratori del vitello d'oro mi sentiranno. Il loro parroco mi ha invitato a predicare? Bene! Tuonerò  come Mosè contro gli ebrei colpevoli: “Siete idolatri, i-do-la-triii”. Si alzò, raggiunse a tastoni la scrivania,  aprì la boccetta dell’acqua di rose, regalo di una devota francese, aspirò il profumo ad occhi chiusi, rabbrividì, agitò il pugno: "Noi siamo soldati del Papa! – disse con voce decisa. – Soldati in guerra. Ecco, la luce è tornata, un segnale divino, senza dubbio. Al lavoro!"  Si chinò sul canovaccio della predica che avrebbe tenuto nella cattedrale di Notre Dame, a Parigi. La frase finale gli piaceva in modo particolare: "Noi cattolici apostolici romani - recitava - dobbiamo essere degli eroi!".

  A metà collina, nella piccola frazione raccolta attorno alla chiesa di San Cristoforo, Mario, un mezzadro del seminario, socchiuse la porta di casa e stette in ascolto.
   "Il treno è arrivato - disse. - Il Nuccio ce l’ha fatta a partire."
Sua mamma, che da una settimana  non si alzava dal letto, sospirò: "E' una grazia della Madonna".
Mario gettò uno sguardo alla facciata della chiesa: "Ma guarda te, - disse - al San Cristoforo gli è caduto giù il bastone”.
Chiuse la porta e tornò a sedersi, impaurito. Era segno, pensava, che  San Cristoforo non poteva più aiutarli. Guardò i muri della stanza che fungeva da cucina e da camera da letto anneriti dal fumo, sua madre devastata dal singhiozzo.     
 "Quest'inverno, dopo che uccidiamo il maiale, ce ne andiamo ben anche noi, mamma", disse.
Lei non rispose; stava pregando per il figlio appena partito per l’Inghilterra, per la figlia che viveva in città; ad ogni Ave Maria un singhiozzo, una fitta allo stomaco.
     
  Seduto al suo banco nel grande studio del seminario il ragazzo osservava commosso i suoi compagni che, come lui, avevano scelto l'ardua strada della dedizione a Dio, della rinuncia al mondo. "Moriamo tutti al mondo per rinascere in Cristo" pensò, commosso. Aveva tredici anni e un’immaginazione fervida. La furia del torrente sembrava annunciargli una vita eroica. Aprì il quaderno sul quale i migliori studenti della scuola media condividevano le loro riflessioni  e scrisse: "Tutto di tutto. Che il Signore ci dia la forza di donargli tutto di tutto". Richiuse il quaderno e ripassò la poesia A Sirmione. Gli piaceva molto ma pensava che lui, a differenza di Catullo, anche nelle più sperdute terre di missione non avrebbe mai provato nostalgia di casa. Nostalgia per il seminario… forse.  La sua vera casa era questa, solo qui si sentiva accettato.

 Lo colse un bisogno urgente di fare una visita a Gesù; chiese il permesso a Padre Tramonti, il prefetto dei piccoli, uscì dallo studio e scese al primo piano. Sul pianerottolo si fermò ad osservare il dipinto che rappresentava il drammatico sbarco in Giappone di S. Francesco Saverio: una nave sballottata dall’oceano, mosso e livido, il cielo scuro, il santo, gli occhi rivolti al cielo, che  baciava la spiaggia, “Un giorno – pensò – anch’io partirò per l'Estremo Oriente, e convertirò milioni di anime a Gesù.” Sentì dei passi leggeri, alzò lo sguardo e intravide un'ombra. Gli sembrò di riconoscere, nascosto dietro la ringhiera, il suo Padre spirituale. L'ombra scivolò via, curva, lui fece velocemente pochi passi a sinistra – ai seminaristi era proibito camminare nel corridoio del primo piano dove vivevano i Padri - aprì la porta del coro e s’inginocchiò davanti all'organo. “Perché mi segue?”, si chiese, sconcertato. 

Il profumo familiare dell’incenso lo tranquillizzò. “Mi sono sbagliato, forse non era lui,” pensò. Notò i fiori freschi a fianco dell'altare, la luce delle candele riflessa dagli ottoni lucidissimi,  fratel Antonio, il sacrestano, era là, inginocchiato a lato dell'altare, la testa fra le mani;  singhiozzava. Con i suoi capelli biondi e ricci sembrava un angelo. Il ragazzo guardò il tabernacolo e salutò Gesù. "Ciao, Gesù, - gli disse - hai visto come ti vuole bene fratel Antonio? Con questo brutto tempo ha raccolto questi fiori meravigliosi. Consolalo, poverino." S’immaginava un Gesù giovane e allegro tutto il giorno in attesa di fare quattro chiacchiere con i suoi amici. "Non posso stare qui molto, - gli disse - devo imparare A Sirmione  a memoria Ma tornerò presto". Sollevato,  mandò un bacio a Gesù e uscì. Aveva ancora le mani giunte e il collo reclinato quando incontrò Padre Padovan. Il gigantesco religioso gli si parò davanti e esclamò, sprezzante: "I colli torti non ci servono! Noi siamo soldati di Cristo, sol-da-ti!". Gli voltò la schiena e se ne andò a grandi passi. 

Il ragazzo si sentì umiliato. Abbassò la testa, salì mestamente le scale e si diresse verso lo studio. L'uscio della stanza del Padre spirituale era aperto ma, appena il ragazzo gli si avvicinò, si richiuse. Turbato, il ragazzo cercò di memorizzare la poesia senza riuscirci. Quando suonò la campana si mise in fila e si avviò con gli altri verso il refettorio, in silenzio. Sulle scale un compagno gli sfiorò un braccio, lui si ritrasse. "I toccamenti - pensò - sono proibiti." Su questo punto il Padre spirituale aveva insistito molto, ultimamente. Durante la cena Padre Tramonti, il prefetto dei piccoli, lesse alcuni episodi della vita di S. Luigi Gonzaga. Quel Padre, giovane, non ancora ordinato sacerdote, dall'espressione cordiale, era molto simpatico al ragazzo: sapeva scherzare ma poteva essere anche molto serio, soprattutto quando parlava di filosofia. "Gli esistenzialisti negano la realtà oggettiva! -  aveva detto una volta, indignato. - Come se non fossero nati da donna anche loro!" E un'altra volta: "I protestanti, d'accordo, hanno contribuito allo sviluppo della democrazia, ma non ci tocchino la Madonna! Quella no!" e si era commosso.
 
  Dopo cena, mentre giocava a calcio balilla nello scantinato, il ragazzo  fu raggiunto da Padre Sartori, insegnate di musica.
"Vieni - gli disse - andiamo a provare i canti per i fratelli”.
Nel seminario c'erano cinque fratelli - cinque uomini che avevano fatto voto di povertà, castità e ubbidienza, ma non avevano preso gli ordini sacerdotali. Si occupavano dei lavori manuali. Dei sette sacerdoti presenti il più misterioso era Padre Sartori non ancora quarantenne, bello, silenzioso, sempre assorto nei suoi pensieri e nella musica; si diceva che scrivesse splendide poesie ma nessuno le aveva mai lette. In attesa di essere sostituito da un novizio svolgeva la funzione di prefetto dei ginnasiali.

         I due si recarono nella piccola cappella barocca riservata ai padri e ai fratelli, dove i seminaristi non erano ammessi; padre Sartori si sedette all'armonium e disse:
 "Domani mattina, per la festa dei fratelli, ti sveglierò alle cinque e mezzo. Adesso canta sottovoce,  i fratelli non devono sentire, sarà una sorpresa."
   Il ragazzo si schiarì la voce, Padre Sartori aprì lo spartito.
  "Prima questa, più facile. Attento agli attacchi, - si raccomandò – conta, vai a tempo".
   Il ragazzo intonò l'inno Laudate Dominum quoniam bonum.
  "Bene, - commentò il Padre - adesso proviamo Ai piedi della croce... Piano, sottovoce...".
  Terminate le prove il Padre commentò: "La voce c'è ancora. E' l'ultimo anno, però, poi diventerai tenore, forse baritono. Domani mattina ti darò un cucchiaino di miele. I fratelli saranno contenti della sorpresa".

 La cena dei padri fu particolarmente spartana: una minestrina e una crescenza acquosa. Padre Richetti mangiò molto pane senza per questo sentirsi in colpa. Ricordava bene la regola 210 degli Esercizi Spirituali, "per trovare in avvenire la giusta misura nel vitto" che recitava: "Dal pane conviene astenersi meno, perché di solito per questo cibo l'appetito non è disordinato e la tentazione non è forte come per gli altri cibi".

Prima della preghiera di ringraziamento il rettore informò i sacerdoti che l'Ordine lo chiamava a nuovi incarichi. Sarebbe stato sostituito da Padre Colombo,  più adatto di lui ad affrontare la difficile situazione economica in cui si trovava il seminario, che le distruzioni causate dal torrente stava rendendo ancora più precaria. La fuga dei mezzadri e la violenza della natura ne minacciavano la sopravvivenza e, caduto il fascismo, i donatori si erano fatti così rari...  Erano necessarie misure drastiche, spiegò, e capacità amministrative che lui, un umile esperto in patristica, non possedeva. "Preghiamo." I padri si alzarono, chinarono la testa e congiunsero le mani. Nel pronunciare la preghiera di ringraziamento il rettore fu percorso da un brivido che gli scosse la schiena, la  sua bocca si riempì di bava, la lingua gli penzolò fuori, contorta.

 Padre Richetti era l'unico sacerdote alloggiato al secondo piano, dove i ragazzi studiavano e dormivano. Il suo compito di Padre spirituale gli imponeva di essere sempre a loro disposizione. Adesso che i ragazzi delle medie inferiori stavano preparandosi ad andare a letto e solo pochi ginnasiali erano ancora nello studio dei grandi, aveva finalmente qualche ora per se stesso. Si sentiva in colpa: la sua paura della fame dimostrava una mancanza di fiducia nella provvidenza divina. Un soldato di Cristo come lui, robusto, che sprizzava salute, un camminatore infaticabile  - tanto da essere soprannominato "Il camoscio" - non doveva avere simili cedimenti. 
Doveva rafforzare il suo spirito con qualche buona lettura. Scelse un libro a caso e lesse: "Il primo peccato è quello degli angeli: su questo devo esercitare la memoria, poi l'intelletto, ragionando, infine la volontà... Devo dunque richiamare alla memoria il peccato degli angeli... - saltò qualche riga. - Dopo che Adamo fu creato nella regione di Damasco e posto nel paradiso terrestre, e dopo che Eva fu formata da una sua costola..."

Non era degli esercizi spirituali di S. Ignazio che sentiva bisogno. Aprì la raccolta delle opere di S. Giovanni della Croce e lesse la più celebre delle sue poesie mistiche, Notte oscura, nell'originale spagnolo, una lingua che conosceva bene. Ah, come gli erano piaciuti gli anni di studio in Spagna, come aveva trovato esaltante quella fede spontanea ed entusiastica che esplodeva in processioni interminabili, coreografie meravigliose, rapimenti estatici! Come si era commosso a Toledo, visitando la fortezza dell'Alcazar, dove i cristiani avevano resistito agli assalti dei comunisti! Resistito e vinto! 

Avrebbe suggerito ai prefetti di leggere ai ragazzi, durante i pasti, la cronaca di quella lotta eroica; sì, avrebbero capito che la frase "perinde ad cadaver", non era un modo di dire ma un modo di vivere! Si commosse ricordando il famoso colloquio telefonico tra il colonnello Moscardò, il difensore dell'Alcazar, e suo figlio Luis, prigioniero delle truppe repubblicane. Lo conosceva a memoria: “Che succede, figlio mio?” “Niente. Dicono che mi fucileranno se l'Alcazar non si arrende, ma tu non preoccuparti di me”. “Se è così, figliolo, raccomanda l'anima a Dio e muori da spagnolo.”
Il ticchettio ostinato della pioggia sulle persiane gli conciliò il sonno. Si svegliò a notte fonda, confuso, la testa appoggiata alla scrivania. Aveva sognato di essere una sposa addormentata sul petto del suo amato, aveva sentito un forte profumo di gigli e una brezza tiepida accarezzargli i capelli.

  Padre Padovan era seriamente preoccupato per il futuro del seminario, soprattutto sul piano spirituale. Quel nuovo prefetto - come si chiamava...? Ah, Moroni - atteso a giorni, lui l'avrebbe aborrito, se un sentimento simile fosse stato lecito. Ma come!? Quello s’interessava di teatro, di musica moderna, leggeva la Gazzetta dello Sport e non esitava a lodarne l'insipida prosa. Certo, il sessantatreesimo paragrafo degli esercizi prescriveva "di prender conoscenza del mondo…”, ma aggiungeva: “… cosicché, detestandolo, possiamo tenerci lontano dalle vanità terrene!" Per purificarsi da pensieri maligni recitò un'Ave Maria. Si diceva, ad-di-rit-tura!, che quel Padre amasse il jazz, la musica del demonio e che - quasi non bastasse - fosse molto legato al novizio Tramonti, altro soggetto tutt'altro che pronto alla lotta contro la detestabile modernità. Fortunatamente, prima che gli fosse concesso di prendere i voti, il giovincello avrebbe dovuto affrontare la dura lezione della tomistica… 

La sua devozione alla Madonna, era genuina, la sua fede nei miracoli assoluta, d'accordo, l’intelligenza notevole, ma quella sua infatuazione per la democrazia conduceva dritta al protestantesimo e di lì... chissà dove. E quell'eccessiva indulgenza nei confronti del piacere, poi! Qualcuno diceva di averlo visto tirare una boccata di pipa nella stanza del fratello ciabattino. E Padre Richetti, con la sua passione smodata per la poesia spagnola!? Come può un religioso così ondivago, tormentato da fantasie assurde, orientare le fragili anime dei seminaristi? Forse aveva sbagliato ordine. Quel suo colorito roseo, poi, destava sospetti. Si flagellava qualche volta? Usava mai il cilicio? Non sembrava. 

La sostituzione del rettore, invece, aveva la sua piena approvazione. Che lo seppellissero in qualche archivio, quel buon religioso malato, lo curassero da quei brividi che lo coglievano nei momenti meno indicati – addirittura  alla consacrazione, mentre voltava la schiena ai fedeli!,  così che tutti potevano vedere la sua schiena contorcersi come  quella di un tarantolato! andiamo, via... - e quella lingua che gli fuoriusciva improvvisamente, contorta, piena di saliva, all’elevazione; orribile, orribile! Affezioni disordinate, la diagnosi non poteva essere che quella: paragrafi 1, 97 e 169 degli Esercizi, se non ricordava male. Certo, era un notevole esperto in patristica, ma poco aggiornato sulle nuove tecniche computerizzate; si era impigrito, evidentemente, oppure erano state le affezioni... Sì, padre Colombo era l'uomo giusto, un amministratore competente, solido, in possesso di una fede operosa, ottima famiglia d'origine, pratico, come la situazione richiedeva, abile.

 Fin dai suoi primi esercizi spirituali Padre Padovan aveva acquisito l'abito dell'esame particolare, ma dopo pranzo non ne aveva avuto il tempo perché il rettore lo aveva invitato a colloquio. Erano coetanei, si conoscevano dai tempi del seminario, vi erano entrati entrambi a undici anni, durante la prima guerra mondiale. Il rettore gli aveva chiesto il suo parere sui prefetti e lui non si era sottratto, aveva parlato con franchezza. La sua intenzione era retta, perché si trattava di fatti pubblici e perché c'erano buone possibilità di aiutare i giovani a migliorarsi - almeno così sperava… - esattamente i due casi previsti dal quarantunesimo paragrafo degli Esercizi, che lui conosceva a memoria. 

Terminato il colloquio, i due anziani padri  erano rimasti ad osservare la furia del torrente, in silenzio; lui, Padovan, gloriando in cuor suo Dio onnipotente per le meraviglie della creazione, il rettore preoccupato per i campi  che la furia delle acque trascinava a valle. Padre Padovan aprì il suo quaderno e si sforzò di ricordare le azioni e i pensieri della giornata. Quella settimana si era proposto di emendarsi dal peccato particolare della pigrizia. Fino a pranzo si era comportato bene, nessun peccato, nessuna mancanza da annotare ma, mentre a fianco del rettore osservava il meraviglioso e crudele spettacolo della natura, si era lasciato vincere da un dolce torpore. Peccato di pigrizia! Segnò un punticino sulla seconda linea. Si ricordò che, ripresosi dal torpore, si era portato la mano al petto, come prescriveva la regola  (“Prima "addizione", paragrafo 27esimo”, pensò compiaciuto), il rettore se n'era accorto e aveva sorriso. Una vera debolezza la sua, imperdonabile! E nel pomeriggio, quando aveva incontrato il ragazzo dal collo torto, non lo aveva redarguito con il necessario rigore! Avrebbe dovuto parlargli chiaramente e più a lungo, avrebbe dovuto suggerire, a quel sepolcro imbiancato, di chiudersi in gabinetto, prendere un bastone e darsi qualche legnata sulle gambe. 

Sì, col bastone che serviva a sturare il gabinetto alla turca, meglio ancora se sporco, certo! Invece… il fatto che il ragazzo avesse già un Padre spirituale, benché non un Padre spirituale esigente come aveva avuto lui da ragazzo, lo aveva indotto a trattenersi. Segnò un altro punticino sulla linea del pomeriggio. "Ho delegato ad altri il mio dovere" pensò, sentendosi in colpa. Il suo difetto era indubbiamente la pigrizia! Confrontando sul suo quaderno la prima linea, vuota, con la seconda, si rese conto che durante la giornata era andato peggiorando.

Doveva infliggersi una penitenza esterna, ma quale? Non poteva negarsi il vitto, avendo già mangiato;  inoltre non aveva ingerito niente di superfluo - non ce n'era stata l'occasione -  e il conveniente era già così risicato da fargli rischiare - qui la regola lo confortava  - un indebolimento o un'infermità, quindi aveva mangiato sia la minestrina che il formaggio e anche un po' di pane. Avrebbe potuto limitare il sonno, non quello superfluo che non si concedeva mai - e non sarebbe stato comunque un merito - ma il conveniente. Decise quindi di vegliare in preghiera fino all'una di notte. Ma i peccati commessi, benché veniali, erano due, quindi aprì il cassetto dell'inginocchiatoio, ne estrasse una catenella di ferro, si tolse la tonaca, la camicia, la maglia, indossò il cilicio  e soffrì fino al momento di coricarsi. 
continua

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