Martino Fausto Rizzotti La mamma
di Giuseppina era sfinita. Il singhiozzo di cui soffriva era diventato così
insistente da procurarle un insopportabile dolore allo stomaco. Chiese a Mario
di chiamare la Santina.
"E' tardi, mamma, - obiettò lui. - starà
dormendo"
Ma quando la vide
diventare viola e piegarsi in due dal dolore decise di obbedire. La signora
Santina abitava nella casa vicina, la luce era spenta. Si coprì con un sacco di
juta, uscì nella pioggia e bussò: "Santa, dorme?"
"No, non dormo, cosa l’è che c'è?"
Santina prese l'immagine della Madonna e
l'olio benedetto che conservava in una cassetta di legno chiusa a chiave, si
avvolse nello scialle e uscì. Aveva cinquantacinque anni, ne dimostrava
settanta ma era ancora energica. Si aggrappò al braccio di Mario e facendo
attenzione a non scivolare nel fango
raggiunse la malata. La stanza era rischiarata da un lume a petrolio; appena la Santa vide la faccia della
vicina scosse la testa. Mario le bisbigliò: "Ségnala, Santa, che le fa
bene".
Le due donne erano cresciute assieme e non si
erano mai allontanate dalla frazione del Fico. Santina mentì alla malata:
"E' l'abbassamento di stomaco, Albina, di' un bel pater ave gloria intanto
che mi preparo..."
Aspettò
che la malata finisse le preghiere, le scostò la camicia da notte, le appoggiò
l'immagine della Madonna sul petto, le unse lo sterno con un filo d'olio e
sussurrò la preghiera segreta delle guaritrici, che le donne della sua famiglia
si tramandavano da generazioni. Il singhiozzo cessò. Il mezzadro riaccompagnò
Santina a casa. Nel dargli la buonanotte lei profetizzò: "Se resiste al
cambio della luna... tira avanti un
quindici giorni."
"Ma il cambio è stanotte!"
Santina sospirò: "Sarebbe più meglio
darci l'estrema unzione ma con questo tempo i padri vengono mica" e sputò.
Lei li odiava i padri e loro la ricambiavano accusandola di stregoneria.
"Ma la Madonna
però, a me mi ascolta però", pensava.
Alle cinque del mattino Padre Richetti ebbe
una polluzione; poco dopo fu svegliato da un tuono. La stanza era buia, la
pioggia si accaniva contro le persiane, folate di vento facevano tremare i
vetri. Richiuse gli occhi. Delirava. Si sentiva pronto a fuggire, sì, a
fuggire, come San Giovanni della Croce era fuggito dalla sua prigione. Come il
santo aveva superato a balzi le rocce del Tago… lui… era pronto a sfidare il
torrente impazzito... Doveva fuggire! Il santo era stato rinchiuso in una cella
fetida per nove mesi, lui viveva in quella stanzetta da tre anni, ma il santo
era solo, mentre lui, tutti i giorni, era esposto alle tentazioni della carne. Sì, sarebbe fuggito. Avrebbe
abbandonato nella cella la sua tonaca, i suoi indumenti intimi sporchi di
sperma, avrebbe indossato una veste nuova, bianca, candida. Come la sposa che
cerca lo sposo...
Era sicuro: "Mi accoglierà tra le sue braccia, sì, gli
laverò i piedi con unguenti profumati!" Accese la luce e si guardò
intorno; vide il confessionale, la sedia sulla quale aveva baciato il ragazzo,
il cuore prese a battergli forte: «Allì me hirio el amor, là mi ferì
l'amore," sospirò. Sentì un rumore di passi in corridoio; qualcuno si
stava dirigendo verso la camerata dei piccoli. Si alzò e si mise ad origliare.
Distinse la voce di Padre Sartori che diceva: "Il miele, inghiottilo
subito". Il ragazzo rispose: "Grazie." Immaginò le giovani
labbra che si protendevano mentre Padre Sartori avvicinava il cucchiaino alla
bocca del ragazzo. Ah, come avrebbe voluto essere al suo posto! Provò i morsi
della gelosia.
Finalmente ricordò: c'era la festa dei fratelli, il ragazzo
avrebbe cantato, non poteva perdere quel momento, doveva sbrigarsi. Arrivò
nella cappella appena in tempo. I fratelli inginocchiati in prima fila, i padri
e i prefetti dietro di loro, il rettore officiava la messa. All'elevazione ebbe
le convulsioni, si dimenò, mostrò la lingua. Alla comunione il ragazzo intonò:
"Lodate il Signore perché è buono, perché è eterna la sua
misericordia..."in perfetto latino, con la sua voce calda da contralto,
con espressione, con... con passione”, pensò Padre Richetti. E quella boccuccia
a cuore, quando cantava... la vedeva
anche senza voltarsi... La messa stava per finire, Padre Sartori si rimise
all'armonium, il ragazzo intonò "Ai piedi della Croce mio Signore, vorrei
portar di tutti i fior l'incanto, e coprirti di rose dolce amore, per
asciugarti il pianto..."
Una
vampata di calore gli salì dal petto, lo fece arrossire, un pensiero gli
attraversò la testa: “Perché fuggire? Il paradiso è qui!"
Il ragazzo continuò: "Sparger dei fiori
e offrirli al tuo bel cuore. Pene, tormenti, amore ed ogni gioia, Signor, ecco i
miei fiori....".
“Sì, sarebbe rimasto… a combattere il tentatore” si disse, pentito.
Terminata la messa, il rettore ringraziò i
fratelli per l'umiltà, la dedizione e soprattutto la fede eroica che avevano
dimostrato anche quell'anno. I padri ritornarono nelle loro stanze per iniziare
l'esame particolare quotidiano della loro coscienza, i fratelli si misero al
lavoro, i prefetti salirono a svegliare i seminaristi. Qualcuno bussò al portone d'ingresso. Il fratello
ciabattino corse ad aprire. Un mezzadro,
fradicio di pioggia, sconvolto, balbettava: "Su, al Fico, l'estrema
unzione... mia mamma..." Fratel Nicola lo riconobbe e lo fece entrare.
"Mario, vieni dentro, chiamo subito il rettore". Il fratello salì al
primo piano, bussò, il rettore si alzò a fatica dall'inginocchiatoio.
Aveva
appena finito l'esame di coscienza e si era scoperto in stato di peccato;
tremava, non si sentiva degno di somministrare i sacramenti. “E' meglio
che si rivolga al suo parroco" disse. Il parroco stava ad un'ora di strada.
Scendendo le scale il fratello, che non voleva dire bugie, elaborò una risposta
ambigua e consolatoria: "Mario, è meglio se chiami don Artemide, che la
conosce bene la tua mamma Albina. Abbi fede, verrà...", e dicendo
"verrà" pensò a nostro Signore.
Arrivato a casa Mario trovò la Santa in lacrime. La legna
bagnata nel camino sibilava, la stanza era piena di fumo. Mario spostò la tenda
annerita che separava i letti dalla cucina, vide il cadavere di sua madre e si
infuriò: "Hai visto, Santina, non l'hanno neanche benedetta, quei porci.
Tutto perché siamo poveri." Prese il calendario di frate Indovino che
segnava il cambio della luna e lo scagliò fuori dalla porta: "Ka t
stramaldìsa te e tut i pret!", urlò.
"Ma cosa che sto qui a fare, -
si chiedeva - a ingrassare quei porci dei preti? Non sono neanche venuti a
darle l'estrema unzione, quelli là del seminario - pensava - ma quando c'è da dividere il grano o i
fichi o le noci, come che corrono! E come che pretendono il loro cinquanta per
cento, fino all'ultimo chicco, fino all'ultimo frutto - è per il Signore,
dicono, i furbassi - non c'è maniera di
farli ragionare, di commuoverli, loro belli in carne, bianchi e rossi, il
gigante, poi!, grasso come un maiale e
noi con la gobba, dalla zappa, su ‘sti terreni che non rendono niente. C’è più
calanchi che terra! “Mezzadri, quindi ladri”, gli ripeteva sempre il gigante, e
loro, i preti, che cos'erano, santi?
"Ka i stramaldisa tut" disse ancora e sputò.
Chiuse la porta e
si guardò intorno. Era una casa quella lì? Dodici metri quadrati, una sola
stanza e c’erano vissuti in cinque, finché suo papà non era morto, a
cinquant’anni. “Una porcilaia, ecco che cos'è, - pensava - una porcilaia. Se
non sarà l'Inghilterra... piuttosto il Belgio, piuttosto in miniera che morire
qui”. Guardò sua madre e pensò: “E’ morta di miseria anche lei”. Non riusciva
neanche a piangere, tanta era la rabbia; e non aveva i soldi per partire.
"La Pina è tornata,
è già di sopra."
Il padrone del bar-trattoria-con-camere
passava questa informazione ai clienti con un sorriso ammiccante. La Giuseppina , una sua
lontana parente, era il fiore all'occhiello della locanda.
"La morettona, quella che è partita
sabato?" chiese il signor Borelli, rappresentante della Ferrero, che
sosteneva di essere un uomo studiato.
"Oh, quella lì se l’è presa comoda, la
signorina... Vadi, vadi che è libera" lo sollecitò il padrone.
Il signor Borelli finì di bere il digestivo,
salì al piano di sopra, bussò alla porta e fu invitato ad entrare.
"Ciao - disse lui - come che stai, bella?"
"Insomma…" gli rispose la Giuseppina. Era
sdraiata sul letto, in reggiseno, senza mutande e con le gambe accavallate. Il
Borelli fece per avvicinarsi.
"Fermo lì, sporcasione. Prima lavati ben
bene, prima" gli intimò lei.
Lui si fece un bidet.
"Usa ben il sapone, mò vhè, che l’è
gratis!" gli ordinò. Era palesemente brilla. Mentre il suo cliente si
lavava, canticchiò un motivetto insegnatole da una sua collega veneta:
"Per
una cana, cana, cana,
per una
cana ontolada,
ghe voria
na savonada
con tre
litri de-e savòn,"
poi
scoppiò in una risata.
"La quale, quando che sei arrivata?"
le chiese lui.
"Sarà un'ora, un'ora e mezza. Giusto il
tempo di mangiare. Dai, vieni qui, bel pistolone."
Il signor Borelli le si avvicinò eccitato. La Giuseppina aveva
ventidue anni, un corpo sodo, tornito ma non grasso - "La mia crema è
stata la zappa" diceva - e due grandi occhi nocciola.
"Di' un
po', sporcasione, - lo tentò - e se
facciamo qualcosa di spesiale?"
"Come che cosa?" chiese lui.
"Ma non sai proprio niente, te! Ma dove
che hai studiato, in seminario? - disse lei e si mise a ridere. - Per esempio
un bel pompino. O facciamo un'oretta, tutto compreso?"
Giuseppina aveva promesso a suo fratello che
gli avrebbe evitato la miniera, che avrebbe pagato il viaggio in Inghilterra
anche a lui e voleva farlo in fretta. "Non lo sa mica, lui, che non lavoro
in fabbrica, o fa finta, chissà? Magari non gli interessa neanche"
pensava. Gli aveva detto: "Mario, te sistema tutto che in quindici giorni,
quando che mi danno la paga, ti mando il vaglia. Poi vai dritto in Inghilterra
che a Milano c'è ancora pieno di case bombardate e non c'è mica tutto quel
lavoro che dicono. Io mi sono adattata ma è difisile. Te vai in Inghilterra
dagli zii, impari il mestiere che poi vengo su anch'io che apriamo un
ristorante coi fiocchi...".
Mentre il signor Borrelli si agitava sopra di
lei Giuseppina faceva i suoi conti: qualche cliente spesiale come questo
cretino e era fatta, gli comprava il biglietto, a suo fratello. Era aprile,
c'era un bel sole, era quasi contenta. Sua mamma era morta senza sapere che lei
batteva, aveva smesso di soffrire, meglio così.
Quel giovedì i seminaristi erano andati in
gita. Erano partiti dopo la colazione, guidati da Padre Tramonti e da Padre
Moroni che, già ordinato sacerdote, era stato mandato a svolgere una mansione
riservata ai novizi, una decisione inusuale. Lui però sembrava allegro,
entusiasta. Padre Tramonti gli aveva presentato i seminaristi uno ad uno. In
fondo al gruppo Padre Sartori canticchiava e segnava il tempo con la mano.
Attraversarono il torrente, ritornato alle sue modeste dimensioni, presero per
la collina e dopo due chilometri arrivarono in un villaggio abbandonato.
Le
porte delle case sbattevano al vento, nelle stradine abbandonate rotolavano
vecchi calendari, immagini del Sacro Cuore, paglia e foglie di mais uscite dai materassi sventrati, penne di
galline e cacche di capre. I muri interni delle case erano neri di fumo, solo
qualche suppellettile e qualche credenza sgangherata erano ancora al loro
posto. "Questa valle l'ha rovinata l'unità d'Italia, - spiegò Padre
Tramonti a Padre Moroni. - Prima, col contrabbando, se la cavavano abbastanza
bene."
Padre Moroni ribattè: "E il latifondo?
Non sottovalutare il latifondo. I padroni qui, erano spietati e il fascismo
stava dalla loro parte".
Padre Tramonti si pentì di aver sollevato un
argomento che coinvolgeva il seminario e cambiò discorso: "Il vero grande
problema attuale è la diffusione dell'ateismo comunista. Si dice che i
comunisti finiranno per imporsi in tutta l'Europa dell'Est, pare che sia stato deciso così a Yalta. E gli ortodossi,
senza la forza che a noi viene dal Papa..." Era seriamente preoccupato.
Citò una frase di Pio XII: "Quando
lo Stato, con l’esclusione di Dio, erige se stesso a fonte dei diritti della
persona umana, l’uomo è immediatamente ridotto nella condizione di uno schiavo,
di una semplice merce civile da sfruttarsi secondo gli intenti egoistici di un
gruppo che eventualmente si trovi al potere. L'ordine di Dio è capovolto."
"Sì, ma tieni presente - puntualizzò
Padre Moroni - che Pio XII non approva nemmeno il materialismo occidentale. Il
mondo è cambiato e la nostra missione apostolica, per essere efficace, deve
coglierne gli aspetti nuovi. Soprattutto... non possiamo permettere che la
battaglia culturale sia egemonizzata dai comunisti. Ma se continuiamo a
ragionare come se fossimo ai tempi dell'inquisizione spagnola come... Hai
capito, no?"
Si interrruppe.
Padre Tramonti sorrise ma se ne pentì subito.
Ebbe il sospetto che stessero criticando i loro superiori e forse il papa
stesso. Superbia e disobbedienza, gli stessi peccati di Lucifero! Proseguirono
in silenzio. Padre Tramonti avrebbe voluto confidargli di essere turbato dalle
convulsioni del rettore, dagli strani atteggiamenti di Padre Richetti che si
aggirava per i corridoi del seminario come un'ombra, dalla mancanza di tatto di
Padre Padovan, ma giudicò la disposizione di spirito di Padre Moroni poco
caritatevole e preferì rimandare le sue confidenze ad un altro momento.
"Conosci
Padre Colombo? - gli chiese Padre Moroni dopo qualche minuto. - Sarà il nuovo
rettore, no?"
"No, non lo conosco."
"E' stato mio insegnante di greco. Ha la
fede pura di un bambino... Dicono che sia un buon amministratore."
Dal tono con cui aveva pronunciato la parola
“amministratore”, Padre Tramonti capì che lui non stimava affatto il futuro
rettore; gli spiacque ma non disse nulla. Era molto affezionato a Padre Moroni;
era stato suo prefetto per un anno e nei momenti di sconforto, quando gli era
sembrato di non essere in grado di vincere le tentazioni del demonio, di non
riuscire a controllare i suoi istinti, lui lo aveva incoraggiato. Quante volte
gli aveva ripetuto: "Omnia munda mundi, tutto è puro per i puri, non farti
paralizzare dagli scrupoli!"
I seminaristi si erano radunati sul sagrato
della chiesa abbandonata. Padre Sartori
ordinò ai ragazzi di cantare a cappella la "Lode alla vittima
pasquale". Estrasse il diapason, se lo percosse sulla testa, diede il là e
diresse il coro. Il finale dell'inno piaceva molto ai ragazzi perchè parlava
della gloria di Cristo risorto. Prima di iniziare il canto Padre Sartori aveva
fatto segno al ragazzo di tacere. Quando ripresero la passeggiata Padre Moroni
chiese di lui a Padre Tramonti.
"Aveva una voce magnifica, - gli disse -
ma la sta cambiando. Padre Sartori non vuole che se la rovini."
"E' intelligente?"
"Molto, ma un po' anarchico."
"Dall'aspetto... con quella faccia
ispirata, gli occhi penetranti, il modo
vivace di gesticolare... si direbbe un artista. Se mi danno il permesso di
mettere in scena l'atto unico che ho in
mente, sulla bomba atomica, lo voglio per la parte dell'angelo. E quel
ginnasiale là, lo vedo bene nella parte dello scienziato. Ha un che di... di inquietante..."
"E' un basso naturale, una voce
meravigliosa, musicalmente è un genio, ma è esaurito e probabilmente ci
lascerà."
S’interruppe. Padre Tramonti sapeva che anche
Padre Moroni era esaurito, che anche lui stava combattendo una dura battaglia
interiore. Aveva terminato gli studi, era stato ordinato sacerdote ma i
superiori non si fidavano di lui, non gli affidavano incarichi di rilievo nel
mondo dello spettacolo, come lui desiderava. Una volta, nel suo stile
tranchant, Padre Padovan aveva detto: "Anche da noi ci sono i topi… ma li
teniamo in cantina".
Padre Richetti
aveva chiesto a Padre Padovan di confessarlo e gli aveva rivelato le sue
paure. Lui gli aveva imposto di astenersi per una settimana dal mangiare il
secondo e, per un mese, di non andare in gita con i ragazzi, la più crudele
delle penitenze. Per tutta la mattinata, mentre fuori splendeva il sole e
l'aria frizzante di primavera risvegliava la natura e agitava suoi sensi, il
Padre spirituale dei ragazzi, obbedendo ad un’altra ingiunzione del suo
confessore, era rimasto nella cappella ed aveva ripassato il quinto esercizio
spirituale - la meditazione sull'inferno - che, dopo la preghiera preparatoria
e due preludi, comprende cinque punti e un colloquio.
Il primo preludio, la composizione, gli riuscì
senza difficoltà; l'immagine dell'inferno, "in tutta la sua lunghezza,
larghezza e profondità", gli era familiare; se l'era costruita fin dai
primi anni di seminario e anno dopo anno l'aveva arricchita di dettagli macabri,.
Passò poi a chiedere a Dio la pena che avrebbe voluto subire qualora fosse
caduto in colpa, così che il timore del
castigo eterno lo aiutasse a non cadere in peccato. Pregò Dio di essere
impalato con un ferro rovente e sentì il dolore squassargli le membra. Passò
all'esercizio dei cinque sensi. La vista: s’immaginò le grandi fiamme
dell'inferno e i corpi incandescenti che vi ardevano senza fine e senza
consumarsi.
Tra le fiamme intravide moltissimi ragazzini; facevano gesti
osceni, gli mostravano le loro gambe nude, il loro sedere! Era sconvolgente,
orribile! Si concentrò sull'udito: sentì i pianti, le urla, le grida e le
bestemmie contro nostro Signore e contro tutti i santi. L'olfatto: quelle
carni, anche le più giovani, puzzavano di fumo, di zolfo, diffondevano un
fetore insopportabile. Pianse e questo gli permise di ripassare il senso del
gusto, assaporando, con il sale delle sue lacrime, la tristezza e il rimorso di
coscienza per aver dubitato della provvidenza divina. Con il tatto palpò le fiamme
che avvolgevano e bruciavano le anime, s’immaginò che le sue mani diventassero
come quelle di fratel cuoco, che questo esercizio spirituale faceva spesso
immergendo le sue nell’acqua bollente.
Il colloquio con Cristo nostro Signore
lo affrontò pieno di vergogna. Non aveva avuto fiducia in lui che pure aveva
detto: "Guardate i fiori dei campi... si preoccupano forse del loro
domani...?" Passò in rassegna le tre divisioni dei dannati: quelli morti
prima della venuta di Cristo, quelli che durante la vita del Salvatore non gli
credettero e quelli che nemmeno dopo la sua resurrezione abbracciarono la fede
cristiana. Ringraziò Gesù per non averlo destinato a nessuna di quelle schiere,
facendolo nascere dopo la sua veduta e nella giusta fede. Cristo aveva mostrato
nei suoi confronti pietà e misericordia infinita. Disse un pater noster e si senti subito meglio. Si sentì
immensamente fortunato.
Quell'esercizio durato tre ore, lo aveva
spossato, gli aveva messo appetito. Mangiò lentamente, come gli aveva raccomandato
il confessore, ringraziando Dio ogni volta che deglutiva una cucchiaiata di
riso, un nonnulla di pane. Tenne gli occhi bassi, ascoltò con attenzione la
lettura edificante, non toccò vino, rifiutò la mela. Dopo la preghiera andò nel
cortile interno del convento a passeggiare e a meditare sui suoi peccati finché
non sentì le voci dei ragazzi che tornavano allegri dalla gita.
Quello che vide
non gli piacque: i piccoli si erano sporcati i calzoni corti lasciandosi
scivolare giù dai calanchi; anche le loro gambe erano rosse di terra. “Quanto
lavoro per il fratel lavandaio”, pensò; e quanto avrebbe voluto dare una
sculacciata al ragazzo che rideva beato, mentre Padre Moroni gli diceva chissà
quale spiritosaggine. Il ragazzo non si era neanche accorto di lui, gli voltava
le spalle e i suoi calzoncini, notò il padre spirituale, erano i più imbrattati! ( continua)
No hay comentarios:
Publicar un comentario