martes, 19 de febrero de 2013

L'educazione dei padri gesuiti (2/4)

Martino Fausto Rizzotti La mamma di Giuseppina era sfinita. Il singhiozzo di cui soffriva era diventato così insistente da procurarle un insopportabile dolore allo stomaco. Chiese a Mario di chiamare la Santina.
  "E' tardi, mamma, - obiettò lui. - starà dormendo" 
  Ma quando la vide diventare viola e piegarsi in due dal dolore decise di obbedire. La signora Santina abitava nella casa vicina, la luce era spenta. Si coprì con un sacco di juta, uscì nella pioggia e bussò: "Santa, dorme?"
  "No, non dormo, cosa l’è che c'è?"
  "L'Albina vuole che la segni."
  Santina prese l'immagine della Madonna e l'olio benedetto che conservava in una cassetta di legno chiusa a chiave, si avvolse nello scialle e uscì. Aveva cinquantacinque anni, ne dimostrava settanta ma era ancora energica. Si aggrappò al braccio di Mario e facendo attenzione a non  scivolare nel fango raggiunse la malata. La stanza era rischiarata da un lume a petrolio; appena la Santa vide la faccia della vicina scosse la testa. Mario le bisbigliò: "Ségnala, Santa, che le fa bene".

  Le due donne erano cresciute assieme e non si erano mai allontanate dalla frazione del Fico. Santina mentì alla malata: "E' l'abbassamento di stomaco, Albina, di' un bel pater ave gloria intanto che mi preparo..."
Aspettò che la malata finisse le preghiere, le scostò la camicia da notte, le appoggiò l'immagine della Madonna sul petto, le unse lo sterno con un filo d'olio e sussurrò la preghiera segreta delle guaritrici, che le donne della sua famiglia si tramandavano da generazioni. Il singhiozzo cessò. Il mezzadro riaccompagnò Santina a casa. Nel dargli la buonanotte lei profetizzò: "Se resiste al cambio della luna... tira  avanti un quindici giorni."
  "Ma il cambio è stanotte!"
 Santina sospirò: "Sarebbe più meglio darci l'estrema unzione ma con questo tempo i padri vengono mica" e sputò. Lei li odiava i padri e loro la ricambiavano accusandola di stregoneria. "Ma la Madonna però, a me mi ascolta però", pensava.
 
  Alle cinque del mattino Padre Richetti ebbe una polluzione; poco dopo fu svegliato da un tuono. La stanza era buia, la pioggia si accaniva contro le persiane, folate di vento facevano tremare i vetri. Richiuse gli occhi. Delirava. Si sentiva pronto a fuggire, sì, a fuggire, come San Giovanni della Croce era fuggito dalla sua prigione. Come il santo aveva superato a balzi le rocce del Tago… lui… era pronto a sfidare il torrente impazzito... Doveva fuggire! Il santo era stato rinchiuso in una cella fetida per nove mesi, lui viveva in quella stanzetta da tre anni, ma il santo era solo, mentre lui, tutti i giorni, era esposto alle tentazioni  della carne. Sì, sarebbe fuggito. Avrebbe abbandonato nella cella la sua tonaca, i suoi indumenti intimi sporchi di sperma, avrebbe indossato una veste nuova, bianca, candida. Come la sposa che cerca lo sposo... 

Era sicuro: "Mi accoglierà tra le sue braccia, sì, gli laverò i piedi con unguenti profumati!" Accese la luce e si guardò intorno; vide il confessionale, la sedia sulla quale aveva baciato il ragazzo, il cuore prese a battergli forte: «Allì me hirio el amor, là mi ferì l'amore," sospirò. Sentì un rumore di passi in corridoio; qualcuno si stava dirigendo verso la camerata dei piccoli. Si alzò e si mise ad origliare. Distinse la voce di Padre Sartori che diceva: "Il miele, inghiottilo subito". Il ragazzo rispose: "Grazie." Immaginò le giovani labbra che si protendevano mentre Padre Sartori avvicinava il cucchiaino alla bocca del ragazzo. Ah, come avrebbe voluto essere al suo posto! Provò i morsi della gelosia. 

Finalmente ricordò: c'era la festa dei fratelli, il ragazzo avrebbe cantato, non poteva perdere quel momento, doveva sbrigarsi. Arrivò nella cappella appena in tempo. I fratelli inginocchiati in prima fila, i padri e i prefetti dietro di loro, il rettore officiava la messa. All'elevazione ebbe le convulsioni, si dimenò, mostrò la lingua. Alla comunione il ragazzo intonò: "Lodate il Signore perché è buono, perché è eterna la sua misericordia..."in perfetto latino, con la sua voce calda da contralto, con espressione, con... con passione”, pensò Padre Richetti. E quella boccuccia a cuore, quando cantava...  la vedeva anche senza voltarsi... La messa stava per finire, Padre Sartori si rimise all'armonium, il ragazzo intonò "Ai piedi della Croce mio Signore, vorrei portar di tutti i fior l'incanto, e coprirti di rose dolce amore, per asciugarti il pianto..."
Una vampata di calore gli salì dal petto, lo fece arrossire, un pensiero gli attraversò la testa: “Perché fuggire? Il paradiso è qui!"
  Il ragazzo continuò: "Sparger dei fiori e offrirli al tuo bel cuore. Pene, tormenti, amore ed ogni gioia, Signor, ecco i miei fiori....". 
  “Sì, sarebbe rimasto… a combattere  il tentatore” si disse, pentito.

  Terminata la messa, il rettore ringraziò i fratelli per l'umiltà, la dedizione e soprattutto la fede eroica che avevano dimostrato anche quell'anno. I padri ritornarono nelle loro stanze per iniziare l'esame particolare quotidiano della loro coscienza, i fratelli si misero al lavoro, i prefetti salirono a svegliare i seminaristi. Qualcuno  bussò al portone d'ingresso. Il fratello ciabattino corse ad  aprire. Un mezzadro, fradicio di pioggia, sconvolto, balbettava: "Su, al Fico, l'estrema unzione... mia mamma..." Fratel Nicola lo riconobbe e lo fece entrare. "Mario, vieni dentro, chiamo subito il rettore". Il fratello salì al primo piano, bussò, il rettore si alzò a fatica dall'inginocchiatoio. 

Aveva appena finito l'esame di coscienza e si era scoperto in stato di peccato; tremava, non si sentiva degno di somministrare i sacramenti.  “E'  meglio che si rivolga al suo parroco" disse. Il parroco stava ad un'ora di strada. Scendendo le scale il fratello, che non voleva dire bugie, elaborò una risposta ambigua e consolatoria: "Mario, è meglio se chiami don Artemide, che la conosce bene la tua mamma Albina. Abbi fede, verrà...", e dicendo "verrà" pensò a nostro Signore.
  
Arrivato a casa Mario trovò la Santa in lacrime. La legna bagnata nel camino sibilava, la stanza era piena di fumo. Mario spostò la tenda annerita che separava i letti dalla cucina, vide il cadavere di sua madre e si infuriò: "Hai visto, Santina, non l'hanno neanche benedetta, quei porci. Tutto perché siamo poveri." Prese il calendario di frate Indovino che segnava il cambio della luna e lo scagliò fuori dalla porta: "Ka t stramaldìsa te e tut i pret!", urlò. 

"Ma cosa che sto qui a fare, - si chiedeva - a ingrassare quei porci dei preti? Non sono neanche venuti a darle l'estrema unzione, quelli là del seminario - pensava  - ma quando c'è da dividere il grano o i fichi o le noci, come che corrono! E come che pretendono il loro cinquanta per cento, fino all'ultimo chicco, fino all'ultimo frutto - è per il Signore, dicono, i furbassi -  non c'è maniera di farli ragionare, di commuoverli, loro belli in carne, bianchi e rossi, il gigante, poi!,  grasso come un maiale e noi con la gobba, dalla zappa, su ‘sti terreni che non rendono niente. C’è più calanchi che terra! “Mezzadri, quindi ladri”, gli ripeteva sempre il gigante, e loro, i preti, che cos'erano, santi?  "Ka i stramaldisa tut" disse ancora e sputò. 

Chiuse la porta e si guardò intorno. Era una casa quella lì? Dodici metri quadrati, una sola stanza e c’erano vissuti in cinque, finché suo papà non era morto, a cinquant’anni. “Una porcilaia, ecco che cos'è, - pensava - una porcilaia. Se non sarà l'Inghilterra... piuttosto il Belgio, piuttosto in miniera che morire qui”. Guardò sua madre e pensò: “E’ morta di miseria anche lei”. Non riusciva neanche a piangere, tanta era la rabbia; e non aveva i soldi per partire.

 "La Pina è tornata,  è già di sopra."
  Il padrone del bar-trattoria-con-camere passava questa informazione ai clienti con un sorriso ammiccante. La Giuseppina, una sua lontana parente, era il fiore all'occhiello della locanda.
  "La morettona, quella che è partita sabato?" chiese il signor Borelli, rappresentante della Ferrero, che sosteneva di essere un uomo studiato.
  "Oh, quella lì se l’è presa comoda, la signorina... Vadi, vadi che è libera" lo sollecitò il padrone.
  Il signor Borelli finì di bere il digestivo, salì al piano di sopra, bussò alla porta e fu invitato ad entrare.
  "Ciao - disse lui - come che  stai, bella?"
 "Insomma…" gli rispose la Giuseppina. Era sdraiata sul letto, in reggiseno, senza mutande e con le gambe accavallate. Il Borelli fece per avvicinarsi.
  "Fermo lì, sporcasione. Prima lavati ben bene, prima" gli intimò lei.
  Lui si fece un bidet.
 "Usa ben il sapone, mò vhè, che l’è gratis!" gli ordinò. Era palesemente brilla. Mentre il suo cliente si lavava, canticchiò un motivetto insegnatole da una sua collega veneta:
"Per una cana, cana, cana,
per una cana ontolada,
ghe voria na savonada
con tre litri de-e savòn,"
poi scoppiò in una risata.
 "La quale, quando che sei arrivata?" le chiese lui.
 "Sarà un'ora, un'ora e mezza. Giusto il tempo di mangiare. Dai, vieni qui, bel pistolone."
  Il signor Borelli le si avvicinò eccitato. La Giuseppina aveva ventidue anni, un corpo sodo, tornito ma non grasso - "La mia crema è stata la zappa" diceva - e due grandi occhi nocciola.
        "Di' un po', sporcasione, - lo tentò -  e se facciamo  qualcosa di spesiale?"
 "Come che cosa?" chiese lui.
 "Ma non sai proprio niente, te! Ma dove che hai studiato, in seminario? - disse lei e si mise a ridere. - Per esempio un bel pompino. O facciamo un'oretta, tutto compreso?"

 Giuseppina aveva promesso a suo fratello che gli avrebbe evitato la miniera, che avrebbe pagato il viaggio in Inghilterra anche a lui e voleva farlo in fretta. "Non lo sa mica, lui, che non lavoro in fabbrica, o fa finta, chissà? Magari non gli interessa neanche" pensava. Gli aveva detto: "Mario, te sistema tutto che in quindici giorni, quando che mi danno la paga, ti mando il vaglia. Poi vai dritto in Inghilterra che a Milano c'è ancora pieno di case bombardate e non c'è mica tutto quel lavoro che dicono. Io mi sono adattata ma è difisile. Te vai in Inghilterra dagli zii, impari il mestiere che poi vengo su anch'io che apriamo un ristorante coi fiocchi...".
 Mentre il signor Borrelli si agitava sopra di lei Giuseppina faceva i suoi conti: qualche cliente spesiale come questo cretino e era fatta, gli comprava il biglietto, a suo fratello. Era aprile, c'era un bel sole, era quasi contenta. Sua mamma era morta senza sapere che lei batteva, aveva smesso di soffrire, meglio così.

 Quel giovedì i seminaristi erano andati in gita. Erano partiti dopo la colazione, guidati da Padre Tramonti e da Padre Moroni che, già ordinato sacerdote, era stato mandato a svolgere una mansione riservata ai novizi, una decisione inusuale. Lui però sembrava allegro, entusiasta. Padre Tramonti gli aveva presentato i seminaristi uno ad uno. In fondo al gruppo Padre Sartori canticchiava e segnava il tempo con la mano. Attraversarono il torrente, ritornato alle sue modeste dimensioni, presero per la collina e dopo due chilometri arrivarono in un villaggio abbandonato. 
Le porte delle case sbattevano al vento, nelle stradine abbandonate rotolavano vecchi calendari, immagini del Sacro Cuore, paglia e foglie di mais  uscite dai materassi sventrati, penne di galline e cacche di capre. I muri interni delle case erano neri di fumo, solo qualche suppellettile e qualche credenza sgangherata erano ancora al loro posto. "Questa valle l'ha rovinata l'unità d'Italia, - spiegò Padre Tramonti a Padre Moroni. - Prima, col contrabbando, se la cavavano abbastanza bene."

Padre Moroni ribattè: "E il latifondo? Non sottovalutare il latifondo. I padroni qui, erano spietati e il fascismo stava dalla loro parte".
 Padre Tramonti si pentì di aver sollevato un argomento che coinvolgeva il seminario e cambiò discorso: "Il vero grande problema attuale è la diffusione dell'ateismo comunista. Si dice che i comunisti finiranno per imporsi in tutta l'Europa dell'Est, pare che sia  stato deciso così a Yalta. E gli ortodossi, senza la forza che a noi viene dal Papa..." Era seriamente preoccupato. Citò una frase di  Pio XII: "Quando lo Stato, con l’esclusione di Dio, erige se stesso a fonte dei diritti della persona umana, l’uomo è immediatamente ridotto nella condizione di uno schiavo, di una semplice merce civile da sfruttarsi secondo gli intenti egoistici di un gruppo che eventualmente si trovi al potere. L'ordine di Dio è capovolto."

 "Sì, ma tieni presente - puntualizzò Padre Moroni - che Pio XII non approva nemmeno il materialismo occidentale. Il mondo è cambiato e la nostra missione apostolica, per essere efficace, deve coglierne gli aspetti nuovi. Soprattutto... non possiamo permettere che la battaglia culturale sia egemonizzata dai comunisti. Ma se continuiamo a ragionare come se fossimo ai tempi dell'inquisizione spagnola come... Hai capito, no?"
 Si interrruppe.

 Padre Tramonti sorrise ma se ne pentì subito. Ebbe il sospetto che stessero criticando i loro superiori e forse il papa stesso. Superbia e disobbedienza, gli stessi peccati di Lucifero! Proseguirono in silenzio. Padre Tramonti avrebbe voluto confidargli di essere turbato dalle convulsioni del rettore, dagli strani atteggiamenti di Padre Richetti che si aggirava per i corridoi del seminario come un'ombra, dalla mancanza di tatto di Padre Padovan, ma giudicò la disposizione di spirito di Padre Moroni poco caritatevole e preferì rimandare le sue confidenze ad un altro momento.
"Conosci Padre Colombo? - gli chiese Padre Moroni dopo qualche minuto. - Sarà il nuovo rettore, no?"
 "No, non lo conosco."
 "E' stato mio insegnante di greco. Ha la fede pura di un bambino... Dicono che sia un buon amministratore."

 Dal tono con cui aveva pronunciato la parola “amministratore”, Padre Tramonti capì che lui non stimava affatto il futuro rettore; gli spiacque ma non disse nulla. Era molto affezionato a Padre Moroni; era stato suo prefetto per un anno e nei momenti di sconforto, quando gli era sembrato di non essere in grado di vincere le tentazioni del demonio, di non riuscire a controllare i suoi istinti, lui lo aveva incoraggiato. Quante volte gli aveva ripetuto: "Omnia munda mundi, tutto è puro per i puri, non farti paralizzare dagli scrupoli!"

 I seminaristi si erano radunati sul sagrato della chiesa abbandonata. Padre Sartori  ordinò ai ragazzi di cantare a cappella la "Lode alla vittima pasquale". Estrasse il diapason, se lo percosse sulla testa, diede il là e diresse il coro. Il finale dell'inno piaceva molto ai ragazzi perchè parlava della gloria di Cristo risorto. Prima di iniziare il canto Padre Sartori aveva fatto segno al ragazzo di tacere. Quando ripresero la passeggiata Padre Moroni chiese di lui a Padre Tramonti.
 "Aveva una voce magnifica, - gli disse - ma la sta cambiando. Padre Sartori non vuole che se la rovini."
 "E' intelligente?"
 "Molto, ma un po' anarchico."
 "Dall'aspetto... con quella faccia ispirata, gli occhi  penetranti, il modo vivace di gesticolare... si direbbe un artista. Se mi danno il permesso di mettere in scena  l'atto unico che ho in mente, sulla bomba atomica, lo voglio per la parte dell'angelo. E quel ginnasiale là, lo vedo bene nella parte dello scienziato. Ha un che di...  di inquietante..."
 "E' un basso naturale, una voce meravigliosa, musicalmente è un genio, ma è esaurito e probabilmente ci lascerà."

 S’interruppe. Padre Tramonti sapeva che anche Padre Moroni era esaurito, che anche lui stava combattendo una dura battaglia interiore. Aveva terminato gli studi, era stato ordinato sacerdote ma i superiori non si fidavano di lui, non gli affidavano incarichi di rilievo nel mondo dello spettacolo, come lui desiderava. Una volta, nel suo stile tranchant, Padre Padovan aveva detto: "Anche da noi ci sono i topi… ma li teniamo in cantina".

 Padre Richetti  aveva chiesto a Padre Padovan di confessarlo e gli aveva rivelato le sue paure. Lui gli aveva imposto di astenersi per una settimana dal mangiare il secondo e, per un mese, di non andare in gita con i ragazzi, la più crudele delle penitenze. Per tutta la mattinata, mentre fuori splendeva il sole e l'aria frizzante di primavera risvegliava la natura e agitava suoi sensi, il Padre spirituale dei ragazzi, obbedendo ad un’altra ingiunzione del suo confessore, era rimasto nella cappella ed aveva ripassato il quinto esercizio spirituale - la meditazione sull'inferno - che, dopo la preghiera preparatoria e due preludi, comprende cinque punti e un colloquio.

Il primo preludio, la composizione, gli riuscì senza difficoltà; l'immagine dell'inferno, "in tutta la sua lunghezza, larghezza e profondità", gli era familiare; se l'era costruita fin dai primi anni di seminario e anno dopo anno l'aveva arricchita di dettagli macabri,. Passò poi a chiedere a Dio la pena che avrebbe voluto subire qualora fosse caduto in colpa, così che  il timore del castigo eterno lo aiutasse a non cadere in peccato. Pregò Dio di essere impalato con un ferro rovente e sentì il dolore squassargli le membra. Passò all'esercizio dei cinque sensi. La vista: s’immaginò le grandi fiamme dell'inferno e i corpi incandescenti che vi ardevano senza fine e senza consumarsi. 

Tra le fiamme intravide moltissimi ragazzini; facevano gesti osceni, gli mostravano le loro gambe nude, il loro sedere! Era sconvolgente, orribile! Si concentrò sull'udito: sentì i pianti, le urla, le grida e le bestemmie contro nostro Signore e contro tutti i santi. L'olfatto: quelle carni, anche le più giovani, puzzavano di fumo, di zolfo, diffondevano un fetore insopportabile. Pianse e questo gli permise di ripassare il senso del gusto, assaporando, con il sale delle sue lacrime, la tristezza e il rimorso di coscienza per aver dubitato della provvidenza divina. Con il tatto palpò le fiamme che avvolgevano e bruciavano le anime, s’immaginò che le sue mani diventassero come quelle di fratel cuoco, che questo esercizio spirituale faceva spesso immergendo le sue nell’acqua bollente. 

Il colloquio con Cristo nostro Signore lo affrontò pieno di vergogna. Non aveva avuto fiducia in lui che pure aveva detto: "Guardate i fiori dei campi... si preoccupano forse del loro domani...?" Passò in rassegna le tre divisioni dei dannati: quelli morti prima della venuta di Cristo, quelli che durante la vita del Salvatore non gli credettero e quelli che nemmeno dopo la sua resurrezione abbracciarono la fede cristiana. Ringraziò Gesù per non averlo destinato a nessuna di quelle schiere, facendolo nascere dopo la sua veduta e nella giusta fede. Cristo aveva mostrato nei suoi confronti pietà e misericordia infinita. Disse un pater noster  e si senti subito meglio. Si sentì immensamente fortunato.

 Quell'esercizio durato tre ore, lo aveva spossato, gli aveva messo appetito. Mangiò lentamente, come gli aveva raccomandato il confessore, ringraziando Dio ogni volta che deglutiva una cucchiaiata di riso, un nonnulla di pane. Tenne gli occhi bassi, ascoltò con attenzione la lettura edificante, non toccò vino, rifiutò la mela. Dopo la preghiera andò nel cortile interno del convento a passeggiare e a meditare sui suoi peccati finché non sentì le voci dei ragazzi che tornavano allegri dalla gita.

 Quello che vide non gli piacque: i piccoli si erano sporcati i calzoni corti lasciandosi scivolare giù dai calanchi; anche le loro gambe erano rosse di terra. “Quanto lavoro per il fratel lavandaio”, pensò; e quanto avrebbe voluto dare una sculacciata al ragazzo che rideva beato, mentre Padre Moroni gli diceva chissà quale spiritosaggine. Il ragazzo non si era neanche accorto di lui, gli voltava le spalle e i suoi calzoncini, notò il padre spirituale,  erano i più imbrattati!    ( continua)

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