Nel Messico preda dell'economia criminale dei narcos e vittima della decomposizione dello Stato neoliberista, nascono milizie di autodifesa popolare - "Non siamo guerriglieri, non siamo banditi. Vogliamo sentirci sicuri "
Federico Mastrogiovanni (testo e foto) Il pick-up senza insegne viaggia a velocità sostenuta tra le curve della Sierra Madre Central. Da poco passate le dieci di sera, sei veicoli con guardie armate di fucile iniziano la ronda quotidiana nei territori della municipalità di Huamuxtitlán, stato messicano di Guerrero. Contadini, commercianti, piccoli allevatori della zona. Facce serie e mani nodose a imbracciare armi che fino a pochi mesi fa servivano per la caccia, gli uomini del Frente Ciudadano Comunitario si distribuiscono nei punti in cui sono
frequenti assalti, sequestri e aggressioni. Nella zona sono presenti gruppi armati di delinquenza locale, ma operano anche cartelli del narcotraffico in combutta con governi municipali più o meno di tutti gli schieramenti politici.
Dal febbraio 2012 il consiglio cittadino del piccolo municipio di Guerrero ha optato per l’autodifesa armata, ronde di cittadini si autorganizzano seguendo le direttive delle assemblee popolari. «La situazione era ingestibile» afferma Miguel, uno dei consiglieri anziani del Frente Ciudadano e responsabile di un programma quotidiano nella radio comunitaria «il livello di corruzione della polizia, delle amministrazioni locali, statali e federali, è vergognoso. Sono loro che danno appoggio ai gruppi criminali. Invece di proteggere la cittadinanza vengono pagati per sequestrare, uccidere e sono autori in proprio di furti e aggressioni».
La polizia municipale è stata disarmata e occupato il palazzo del sindaco, a seguito del sequestro di 17 persone nel giugno scorso. «Quando abbiamo occupato la sede della polizia municipale, dopo il sequestro delle 17 persone, abbiamo trovato una bambina di 13 anni ammanettata a un letto. Era stata violentata lì, dai poliziotti, era legata a una branda da ore. La cittadinanza si è imbestialita, abbiamo catturato quattro agenti, che sono stati massacrati di botte. Gli altri sono scappati» ricorda Saúl, uno dei primi nel Frente Ciudadano. «Ci siamo organizzati meglio e abbiamo deciso di darci delle regole. Nel gruppo armato di polizia comunitaria possono entrare solo persone rispettabili, senza precedenti penali, gente di fiducia».
L’autodifesa armata
Negli ultimi due anni sono nati decine di gruppi di autodifesa comunitaria in vari stati del paese. Difesa dei boschi, delle sorgenti d’acqua, in opposizione ai gruppi criminali, nell’assenza totale delle forze di polizia o con forze di polizia colluse con il crimine organizzato. Nell’aprile del 2011 si è formato il gruppo di polizia comunitaria della comunità di Cherán, nello stato di Michoacán, uno dei più organizzati e meglio armati del Messico. La mobilitazione armata di tante comunità messicane è tema di grande attualità, ma il primo gruppo ha origine nello stato di Guerrero, nel 1995, nella comunità indigena di San Luís Acatlán, nella regione della cosiddetta Costa Chica.
Originariamente ispirate dalla sollevazione dell’Ezln (Esercito zapatista di Liberazione Nazionale) del primo gennaio del 1994 nel vicino Chiapas, alcune comunità di indigeni mixtechi e tlapanechi del municipio di San Luís si organizzarono per opporsi alla violenza e all’assenza delle istituzioni, formando la ‘Coordinadora Regional de Autoridades Comunitarias’ (Crac). La Crac si è radicata nel territorio, trasformandosi nell’unica forza di polizia rispettata e considerata vicina ai popoli originari. Gli abitanti del municipio di Huamuxtitlán, dopo la formazione del loro Frente Ciudadano ne hanno chiesto il riconoscimento da parte della Crac.
Per raggiungere San Luís, cuore della Coordinadora, occorrono quattro ore di strada di montagna, addentrandosi nella sierra di Guerrero, fino quasi ad arrivare alla costa, a pochi chilometri da Acapulco. Poco prima di arrivare nel paese in cui è nata la Crac si passa da Espino Blanco, piccola comunità di montagna in cui da circa sette anni trasmette la radio comunitaria ‘La voz de los pueblos’, principale mezzo di comunicazione e organizzazione dei vari gruppi di polizia comunitaria della regione.
San Luís è vicino all’oceano. Il clima è caldo umido, la presenza indigena è forte e mescolata con la componente afro, molto più numerosa sulla costa, i mestizos.
Per le strade la polizia comunitaria è visibile, un’istituzione vera e propria. I poli, sono ben equipaggiati, ordinati, esperti. I vigili della municipale si limitano a gestire il traffico o a sonnecchiare nelle poche auto di servizio. «La gente ci rispetta» dice Leonel, vice comandante «la comunità ci nomina e la comunità ci destituisce. Rendiamo conto alla comunità, e soprattutto ne siamo parte». Prima di andare in ronda, Leonel passa a salutare i detenuti del centro di giustizia comunitaria di San Luís. Sei uomini rinchiusi in una cella che li contiene a mala pena. Di giorno hanno l’obbligo di lavorare al servizio della comunità con compiti di ogni tipo. Le famiglie possono andare a trovarli in qualsiasi momento. Se lavorano in campagna le donne che preparano da mangiare per i membri della polizia offrono cibo e bevande anche a loro. Tre volte la settimana gli anziani vanno a parlare con loro. «I detenuti sono persone che hanno commesso errori» spiega Leonel dopo un breve scambio di battute piuttosto rilassato con loro «sono membri della comunità e devono uscire dalla detenzione migliori di come sono entrati. La rieducazione non è una formula vuota. È importante che quando escono siano più solidali, più attivi, più sensibili».
Le fazioni armate
Le regole della Crac sono la ragione per cui il governo messicano non ha ancora messo al bando questo movimento armato che, di fatto, in alcune zone di Guerrero si è sostituito alla polizia ufficiale. Una delle regole più rigide è il divieto assoluto di coltivare marijuana e oppio. Per i contadini è una scelta difficile, dato l’alto rendimento economico di queste due piante rispetto al più tradizionale caffè o cocco, ma l’ingerenza dei cartelli del narcotraffico porta con sé troppe implicazioni.
«Non ci siamo mai posti contro lo Stato» spiega Pablo Guzmán Hernández, uno dei fondatori della Crac e attuale coordinatore del gruppo «abbiamo preso atto dell’assenza delle istituzioni in alcune zone del paese e della necessità di garantire la sicurezza nelle nostre comunità. Non ci poniamo neanche l’obbiettivo di combattere il narco. Sono troppo forti e troppo ben armati. Svolgiamo compiti di polizia ma quella è gente più armata dell’ esercito. Se il governo federale o il governo statale vogliono aiutarci, tanto meglio, altrimenti noi continueremo per la nostra strada, ascoltando i bisogni delle comunità. Proprio perché non siamo dei banditi non ci copriamo la faccia come altri gruppi».
Il volto coperto è invece un tratto distintivo di una nuova forza che ha preso piede di recente nella zona, la ‘Union de Pueblos y Organizaciones del Estado de Guerrero’ (UPOEG) e che ha acceso il conflitto nello stato di Guerrero, a partire dal municipio di Ayutla de los Libres. A complicare le cose c’è il fatto che la Coordinadora è cresciuta molto anche grazie al sostegno ricevuto, negli ultimi anni, dal governo dello stato di Guerrero, che l’ha appoggiata finanziariamente e con mezzi. L’accettare denaro pubblico ha fatto sì che da un lato si frammentasse il consenso interno tra coloro che puntavano a una totale autonomia e dall’altro ha reso la Crac un obiettivo alla portata di alcune parti dello Stato che da molti anni avevano provato a cooptarla, cercando di assorbirla nel marasma di istituzioni corrotte che abbondano all’interno della classe politica messicana.
Il 7 gennaio del 2013 alcune decine di uomini incappucciati, armati con armi pesanti, hanno occupato le strade di Ayutla, denominandosi autodifesa cittadina. La Crac ha preso le distanze da questo gruppo paramilitare, l’esercito è intervenuto ma non ha disarmato gli incappucciati limitandosi a un dispiegamento sul territorio e ai posti di blocco.
I rischi
«L’obiettivo del governo dello stato di Guerrero è infiltrarsi in entrambe le organizzazioni, sostiene Cau, giornalista mixteco che da anni racconta lo sviluppo della polizia comunitaria, in gioco c’è molto più di quello che sembra. Guerrero è il primo produttore di oppio del Messico, oltre che di marijuana. Tutta la droga che si produce qui e anche quella che arriva dalla Colombia via mare, deve passare per il corridoio che da Acapulco arriva a Città del Messico, attraverso la capitale dello stato, Chilpancingo e la vicina Cuernavaca. Da lì la droga si divide in carichi di varia portata verso gli Stati Uniti. Il controllo di questi territori è strategico e i gruppi del crimine organizzato da decenni si contendono queste piazze. Lo Stato è assente e complice, le popolazioni locali fin dai tempi di Lucio Cabañas e Genaro Vázquez si sono dovute difendere e organizzare per conto proprio».
Per Víctor Martínez, professore di diritto costituzionale dell’università Tecnológica di Monterrey, l’esistenza di qualsiasi gruppo di polizia comunitaria rappresenta una minaccia per la sovranità dello Stato e un affronto alla Costituzione: «Una persona o un gruppo della società non si fida più delle istituzioni e decide di assumere la difesa dei propri interessi, della propria sicurezza, ma questo non ha alcuna base giuridica. Lo Stato non può permettere l’autodifesa, per questo ci sono le istituzioni. Per questo sono state create le autorità. La realtà dei fatti ci dice che oggi chiunque può arrestare un delinquente, o presunto tale, senza però basarsi su regole condivise. E ciò è molto pericoloso perché può facilmente sfociare nell’arbitrarietà».
Avvicinandosi ad Ayutla, sono molte le comunità indigene isolate, nelle quali la polizia comunitaria appartenente alla Crac difende il territorio, facendo fronte ai ‘colleghi’ della UPOEG, all’esercito e alla delinquenza organizzata. Nella comunità di el Paraíso, a un’ora da Ayutla, i membri della polizia comunitaria hanno idee più precise che altrove. Come tanti villaggi della zona, el Paraíso è molto isolato dai centri più abitati e la lotta è più dura. «Non è una scelta facile la nostra, racconta il comandate Efraín Flores, anzi, è stato un processo difficile e doloroso quello che ci ha spinto a prendere le armi - faccio il commerciante, non avrei mai pensato di imbracciare un fucile. La verità è che lo stato di diritto da queste parti non esiste, non è mai esistito. Magari siamo anche fuori dalla Costituzione, io non ho studiato, non lo so. Ma quello che so è che le popolazioni mixteche e tlapaneche, hanno sopportato la violenza per troppo tempo, e se ci siamo opposti è perché non vedevamo nessuna alternativa».
Vicino a Efraín, a fare la guardia a un altro centro di giustizia comunitaria, siede Anastasio Ramírez. È un indigeno mixteco che parla con difficoltà il castigliano. Tra le mani da contadino ha un fucile da caccia che dimostra almeno cinquant’anni. Rimane in silenzio mentre ascolta il suo comandante, di quando in quando da un’occhiata al prigioniero che, scortato da un poli, si fa la doccia tra gli alberi di palma. Prende la parola per raccontare la sua storia. «Mia figlia me l’hanno ammazzata un anno e mezzo fa, aveva quindici anni. L’ha uccisa un uomo che voleva averla a ogni costo, ma lei si rifiutava. Lui le ha sparato». Con le dita nervose attorciglia il nastro che fa da bandoliera al vecchio fucile. «Avrei potuto ucciderlo. Non era un problema. Ma noi vogliamo giustizia, siamo stanchi della vendetta e della violenza. Vogliamo vivere in pace, e che si faccia giustizia. Per questo sto nella comunitaria».
Autodifesa e Stato
Il rischio di una giustizia fai da te e quanto mai sommaria è molto alto. La Crac ha fatto il possibile per non essere accusata di sovversione o paramilitarismo nel corso dei 17 anni della sua esistenza. Vero è che la presenza dello Stato si è dimostrata, nel migliore dei casi, insufficiente. A fronte dell’aumento di gruppi di autodifesa armata, il ministro dell’interno, Miguel Ángel Osorio Chong da una parte condanna blandamente la formazione di gruppi armati, dall’altra afferma di voler appoggiare i movimenti esistenti, nell’intento di sconfiggere il crimine organizzato.
E lo stato del Guerrero si militarizza, tanto più in zone ‘calde’ come Ayutla. Attraversare la sierra ed entrare in città è un’esperienza surreale. Si passa dalle ronde e posti di blocco dei poliziotti della Crac, con la loro uniforme verde oliva, cappelli con lo stemma e armi poco vistose, ai posti di blocco dell’esercito, con controllo dei documenti e di ogni veicolo, a quelli, molto più numerosi, degli ‘incappucciati’, i nuovi ribelli dell’autodifesa che, a poche centinaia di metri dai soldati, sfoderano armi d’assalto coprendosi il viso e terrorizzano chi passa. Tra loro erano stati avvistati alcuni dei noti paramilitari. «Non ci copriamo la faccia perché non abbiamo nulla di cui vergognarci - commenta il comandante Leonel seduto nella parte posteriore del grosso pick-up bianco della Crac - i sequestri sono diminuiti, gli assalti quasi non si registrano, i furti e le aggressioni nemmeno. Ma contro il narco non ci mettiamo. Con loro è impossibile. Dovrebbe occuparsene lo Stato».
La contraddizione tra necessità di autonomia e domanda di una maggiore presenza dello Stato è una delle caratteristiche più frequenti del dibattito tra i comunitarios. La situazione è sempre in bilico tra calma apparente e scontro che può buttare in tragedia in qualunque momento. La soluzione per i più vecchi militanti della comunitaria sembra essere soltanto una: ritornare alle comunità, riunirsi, discutere, pensare insieme strategie di lotta, senza perdere di vista gli obiettivi originali dai quali questa lotta è partita, la sicurezza dei villaggi, la riduzione della violenza.
Nel resto del Paese continuano a sorgere nuovi gruppi, l’ultimo dei quali si è sviluppato nello stato di Veracruz, ispirato alle formazioni del Guerrero. Lasciandosi alle spalle le montagne della Sierra di Guerrero, che variano dalla vegetazione alpina alle distese di cactus a perdita d’occhio, si capisce perché le istituzioni messicane siano molto indecise sul da farsi e come prenda spazio l’ipotesi di una strategia contro insorgente per eliminare i gruppi che si oppongono allo sfruttamento del territorio da parte del crimine organizzato. Le ronde aumentano di giorno in giorno così come il numero di armi che arrivano a Guerrero. Durante l’assemblea al quartier generale della Crac spicca l’intervento di un uomo anziano, uno dei fondatori del movimento, da tempo tornato a lavorare la terra. Con le lacrime agli occhi grida in uno spagnolo stentato: «Noi non siamo guerriglieri, non siamo banditi. Vogliamo sentirci sicuri. Vogliamo non sentirci fuori della legge. Ma ci stanno spingendo fuori a calci. Però alla televisione dicono che a Guerrero non succede niente, che la situazione è calma. Ma allora qualcuno mi deve spiegare cosa fanno qui tutti questi soldati!»
Mentre turisti ignari continuano a popolare le spiagge del Pacifico, lo stato di Guerrero si prepara al conflitto e all’ennesimo bagno di sangue.
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