Marco Fedi*
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In molti Paesi “privatizzazione” non è stato sinonimo di investimenti, di scelte legate alla qualità delle infrastrutture, di controllo dei prezzi in un regime di libera concorrenza e di libera scelta del gestore. Siamo davanti ad una crisi mondiale che riguarda le risorse idriche del nostro pianeta.
L’Argentina sta attraversando una delle peggiori siccità degli ultimi cinquant’anni, l’Australia – da molto tempo e in molti Stati – adotta forti limitazioni all’uso dell’acqua e convive con una siccità che oggi non è più riconducibile all’effetto di surriscaldamento del pacifico (El Niño effect), bensì è divenuta, purtroppo, una condizione permanente di sostanziale povertà idrica.
In altre zone del pianeta, dalla Giordania al Pakistan, dal Kenya a Israele, dalla Spagna all’Italia, fino a Stati Uniti e Asia, l’accesso all’acqua si trasforma in una grande e complessa questione che attiene alla sfera dei diritti umani, che è centrale nel delicato equilibrio ambientale, che concerne anche la produzione di energia, e che riguarda la qualità degli investimenti e delle infrastrutture per l’erogazione di beni e servizi ai cittadini.
È in questo quadro di grande attualità e complessità che si pone il dibattito sulla “privatizzazione” dell’erogazione e della distribuzione dell’acqua in Italia. Un bene universale e pubblico – che tale rimarrebbe – ma che rischia di subire i condizionamenti forti di interessi “privati”, in assenza di un “garante” degli interessi collettivi tale da svolgere un costante monitoraggio della qualità e un preciso controllo della corretta applicazione delle tariffe, oltre a garantire un reale regime di competitività.
Il tema richiederebbe un autentico approfondimento da parte delle Commissioni competenti e della stessa assemblea. Si rischia invece di commettere errori e di paralizzare l’intero settore. In molti Paesi “privatizzazione” non è stato sinonimo di investimenti, di scelte legate alla qualità delle infrastrutture e di controllo dei prezzi.
Per queste ragioni maggioranza e opposizione dovrebbero esercitare le proprie prerogative parlamentari prima di limitare il voto a un semplice atto amministrativo mascherato anche da “direttiva europea”. La liberalizzazione dell’acqua ci chiede qualche attenzione in più di semplici logiche commerciali e di libero scambio.
* Segretario III Commissione Affari Esteri e Comunitari
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