viernes, 25 de marzo de 2011

Huawei, un Marchionne con caratteristiche cinesi

Relazioni lavorative reali vigenti in una grande fabbrica elettronica, ristrutturata "alla Marchionne"
Ivan Franceschini
http://www.cineresie.info/
Mentre l’Italia ha i suoi Marchionne a cui pensare, anche in Cina il dibattito sulle relazioni industriali prosegue tra alti e bassi. Esattamente come a Mirafiori, anche qui si cerca la risposta ad un interrogativo fondamentale: i diritti e le tutele dei lavoratori sono sacrificabili in nome di una presunta “sopravvivenza” dell’azienda? C’è chi sostiene di sì e argomenta che nel caso in cui un’azienda fallisca i lavoratori si ritrovano disoccupati e quindi è nell’interesse di tutti arrivare ad una soluzione di compromesso; c’è chi invece afferma il contrario, ribadendo che esistono delle garanzie minime, spesso conquistate a caro prezzo dai movimenti operai, assolutamente irrinunciabili. Di fatto, questo è uno dei tanti paradossi delle relazioni industriali che la globalizzazione produttiva non ha fatto altro che acuire.

Più diritti o più investimenti?

Sono ormai anni che in Cina si dibatte l’importanza di rafforzare le tutele dei diritti dei lavoratori. E in questo senso sembrerebbe andare pure l’opera del governo, se si considera l’imponente opera legislativa che è stata intrapresa nell’ultimo lustro. Non solo in questi anni sono state promulgate almeno quattro leggi fondamentali – rispettivamente sui contratti di lavoro, sulla promozione dell’occupazione, sulla mediazione e l’arbitrato sulle dispute sul lavoro e sulla sicurezza sociale – ma tuttora si sta lavorando ad una revisione della legge nazionale sui sindacati, mentre le varie province stanno legiferando su temi fondamentali come la contrattazione collettiva e la gestione democratica dell’impresa.
Il tutto tra mille intoppi e ritardi, soprattutto a causa della feroce opposizione delle associazioni imprenditoriali cinesi e straniere, nonché di parte dello stesso establishment politico cinese, convinto che i tempi non siano ancora maturi per introdurre simili elementi di rigidità nel mercato del lavoro.

Un Marchionne con caratteristiche cinesi

Esattamente com’è accaduto in Italia con le vicende della FIAT, anche in Cina uno degli ultimi scossoni al dibattito è arrivato dalle politiche interne di un’azienda che per molti versi si presenta come una sorta di “orgoglio nazionale”: la Huawei, un colosso nel settore delle apparecchiature per le telecomunicazioni basato a Shenzhen. Cos’è successo? In sostanza, nell’estate del 2010 la dirigenza aziendale ha deciso di adottare una nuova politica con cui i dipendenti di livello intermedio e superiore sono stati obbligati a scegliere tra due titoli, “lavoratore” (laodongzhe) e “combattente” (fendouzhe).

Per potersi definire “combattente”, il dipendente non doveva far altro che firmare una dichiarazione in cui affermava di rinunciare spontaneamente ad alcuni diritti stabiliti per legge, come ad esempio le ferie pagate, il pagamento degli straordinari non obbligatori e il permesso di maternità per i padri. Chi, al contrario, decideva di rimanere un semplice “lavoratore” manteneva i propri diritti, ma si trovava ad affrontare il rischio di una penalizzazione in fase di valutazione, promozione e distribuzione delle azioni e dei bonus. Come un dipendente dell’azienda protetto dall’anonimato ha dichiarato al Nanfang Zhoumo lo scorso dicembre: “Non è detto che firmare l’accordo abbia dei vantaggi, ma ciò che è certo è che rifiutarsi di firmarlo non può portare niente di buono”.

Il Nanfang Zhoumo in un suo articolo sulla vicenda ha cercato di ricostruire la cultura aziendale della Huawei, fondata nel 1988 da Ren Zhengfei, un imprenditore oggi sessantaseienne con un passato tra i ranghi dell’esercito. Se il capitale iniziale era di appena 240.000 yuan, nel giro di un decennio quest’azienda è arrivata ad assumere la leadership sul mercato cinese delle apparecchiature per le telecomunicazioni, fino al 2009, quando ha raggiunto un volume di vendite globale pari a 149,1 miliardi di yuan e ad un profitto netto di 18,3 miliardi.

Tuttavia, nonostante questo incredibile successo e il progressivo radicamento sui mercati globali – in Italia la Huawei è presente con tre sedi, rispettivamente a Milano, Torino e Roma – i dipendenti cinesi dell’azienda, il 70% dei quali ha una laurea specialistica o addirittura un dottorato, sono da sempre costretti a lavorare come se fossero in uno stato di crisi perenne. Questo per una scelta esplicita e consapevole della dirigenza, che non vuole che essi pensino di aver trovato la propria “ciotola di riso di ferro” (tiefanwan), come veniva chiamato il posto di lavoro a vita con pieni benefit del periodo maoista.

Lei Feng, una vite rivoluzionaria

Di fatto, la Huawei motiva i propri dipendenti vincolando la sorte di questi ultimi al proprio successo attraverso la distribuzione di partecipazioni azionarie ed opzioni varie. Eppure, allo stesso tempo pretende una fedeltà assoluta a quella che è stata definita una cultura aziendale “da lupi” (langxing wenhua). Per citare solo un paio di slogan interni: “Bisogna riuscire a sopportare dieci anni seduti su una fredda panca”, “Solamente un uccello che brucia ma non muore è una fenice”. Come lo stesso Ren Zhengfei ha affermato, citando il classico modello d’epoca maoista di quel giovane soldato che affermava di voler essere solamente una vite rivoluzionaria che non arrugginisce mai: “La Huawei spinge ogni persona a diventare come Lei Feng, ma assolutamente non maltratta Lei Feng”.

In altre parole, quest’azienda, che ci tiene a sottolineare il suo ruolo di pioniere nel proprio campo, continua a promuovere una cultura aziendale della “frontiera”, in cui ogni dipendente, soprattutto ai livelli manageriali più elevati, viene spinto ad essere un “eroe” (yingxiong) e a comportarsi come tale. Per citare ancora Ren Zhengfei, “i manager devono capire che il loro compito è quello di aiutare i subordinati ad essere degli eroi, ad essere dei buoni eroi per loro, a realizzare gli obiettivi dell’azienda e a fornire un buon servizio. Se gli eroi sono gli altri, allora questi manager chi sono? Sono dei leader. E un leader ha la funzione di servire.”

Dimettiti che poi ti riassumo

Che i tanti Lei Feng della Huawei non vengano “maltrattati”, per usare il lessico di Ren Zhengfei, non è poi così scontato. Già in passato l’azienda ha adottato iniziative manageriali discutibili, come quando, nel 1996, ha costretto i dipendenti del reparto di marketing a dimettersi in massa e a competere tra loro per essere riassunti. Oppure come quando, nel dicembre del 2007, alla vigilia dell’entrata in vigore della nuova Legge sui contratti di lavoro, ha costretto alle dimissioni oltre settemila dipendenti con più di otto anni di anzianità, sborsando circa un miliardo di yuan per le liquidazioni solamente per costringere costoro a competere per riavere indietro i loro posti di lavoro.

Nonostante i dinieghi dei vertici aziendali, questa scelta, economicamente irragionevole, era con ogni evidenza motivata dal fatto che la nuova legge prevedeva che ai dipendenti con dieci anni continuativi di lavoro in una stessa azienda dovesse essere garantito un contratto di lavoro a tempo indeterminato.  
Allora il cosiddetto “scandalo delle dimissioni della Huawei” (huawei cizhimen) aveva diviso ulteriormente un’opinione pubblica già di per sé polarizzata. Se da un lato specialisti e sindacalisti cinesi in ciò avevano letto una fondamentale ignoranza della nuova legge e una dimostrazione della scarsa disponibilità da parte delle aziende a farsi carico di nuove responsabilità nei confronti dei dipendenti, dall’altra il mondo imprenditoriale aveva interpretato il tutto come una scelta inevitabile a fronte di una legge ingiusta ed eccessivamente onerosa.

Firmare la propria condanna?

Tornando alla storia dei “lavoratori” e dei “combattenti”, l’azienda sembra aver dato rigide disposizioni ai propri dipendenti di non discutere della questione con i media. Tutti i miei tentativi di intervistare dei lavoratori della Huawei, fatti anche attraverso contatti personali, sono caduti nel vuoto, soprattutto una volta che l’interlocutore si è reso conto di trovarsi di fronte uno straniero. Alcune voci critiche sono rintracciabili negli articoli usciti sulla stampa cinese tra l’agosto e il dicembre del 2010 – ad esempio il Xin Shiji Zhoukan riporta le parole di un dipendente che avrebbe detto: “In ogni caso si tratta di una morte.

Firmiamo un accordo per stabilire se morire di stanchezza o di fame”. Oppure un altro dipendente, citato dal Nanfang Zhoumo, che su un forum interno dell’azienda avrebbe commentato: “E’ come se io avessi due lingotti d’oro e tu me ne portassi via uno e poi mi chiedessi quale voglio. Che differenza fa che tu me lo chieda? Di per sé, sono cose che mi appartengono, che diritto hai di servirti della tua autorità e di usare il sistema come uno scudo per portarmene via una parte apertamente e legalmente?”

Eppure, se si guarda al web, si possono scoprire diverse voci che si levano a difesa dell’azienda. Come il netizen “gudairen”, che sul forum HoopChina ci tiene a fare dei distinguo: “[Una simile politica] è condivisibile (heqing) ma non ragionevole (heli). Da un lato è condivisibile perché, a confronto con altre imprese nello stesso settore, le condizioni alla Huawei sono sufficientemente buone da far sì che simili decisioni non vadano ad intaccare l’attrattiva dei salari. Non vuoi farlo? OK, fuori ci sono altre persone che sono disposte a farlo.

D’altra parte non è ragionevole, perché si tratta di un modo di fare contrario alla legislazione sul lavoro e non è possibile vincolare il salario che un dipendente dovrebbe ricevere alle sue prospettive di carriera. Per dirla tutta, si tratta semplicemente di un modo con cui l’azienda vuole abbassare i propri costi”. Oppure, sempre sullo stesso forum, la netizen “lingyunliushui” che scrive: “La Huawei pretende che tu ti dia da fare e allo stesso tempo ti paga in proporzione, questa è la sua cosiddetta cultura aziendale ‘sfruttatrice’.

Se non ti va di darti da fare, se preferisci una cultura aziendale dell’’ammazzare le giornate’, allora cercati un’azienda di questo tipo. Non si tratta d’altro che di una decisione bilaterale presa da entrambe le parti.” In particolare, quest’enfasi sulla “libera scelta” sembra essere particolarmente diffusa tra i netizen. Chissà come si pronuncerebbero i dipendenti della Huawei nell’improbabile caso di un referendum interno all’azienda. Le vicende della FIAT in fondo ci dimostrano che nulla è poi così scontato.

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