sábado, 24 de agosto de 2013

Reportage sul Brasile (2/4)

I patti tra elite, chiave del funzionamento del sistema brasiliano  
Gli avvenimenti delle recenti proteste di massa hanno stupito tutti gli analisti ed esperti della realtà brasiliana. Un tratto che ha caratterizzato finora il paese, differenziandolo degli altri paesi sudamericani, è il silenzio delle masse sullo spazio pubblico, l’assenza di mobilitazioni popolari nelle strade. Molti si sono soffermati sulla constatazione che sin dal 1992, quando le proteste rovesciarono l’allora Presidente Fernando Collor de Mello, non si vedevano accadimenti similari. Lo stesso vale per il movimento operaio: le mobilitazioni di massa convocate
dai sindacati per lo scorso 11 luglio sono state le prime dallo sciopero generale del 1991!
Ciò che caratterizza la politica brasiliana sono i patti tra le elite, il vero potere che governa nel paese. Jose Natanson, un qualificato analista politico e giornalista argentino, fa un’illuminante riflessione sulle radici storiche di questa particolare idiosincrasia brasiliana, cioè  il fatto che “tutti i grandi cambiamenti si processano attraverso accordi di cupola  e in forma graduale, relativamente pacifica e di solito lentanei quali “il popolo mobilitato occupa un posto relativamente secondario”. E’ possibile risalire allo stesso processo d’indipendenza dove, a differenza delle lunghe e sanguinose guerre vissute dalle colonie ispaniche, il Brasile si separa dal Portogallo attraverso un accordo familiare all’interno della stessa monarchia portoghese.

 La stessa cosa vale per l’abolizione della schiavitù, che deve attendere fino il 1888 (l’ultimo paese del continente) ed è il prodotto di una decisione concordata, o con la nascita della repubblica nel 1899; o per il varguismo, versione brasiliana del populismo, “un movimento popolare, redistributivo e inclusivo, ma dove la componente della mobilitazione popolare appare marcatamente attenuata” rispetto al suo equivalente argentino del peronismo

Molto dopo, nei roventi anni ’60, il movimento guerrigliero sorto in Brasile è stato “entusiasta, diffuso e senza forza” paragonato con quelli cresciuti in Argentina, Uruguay o Cile e la stessa dittatura posteriore, anche se ha torturato e ucciso, non ha creato campi di concentramento o piani sistematici per rubare bambini (come accaduto in Argentina ndr). Anche al ripristino della democrazia si è arrivati mediante un processo concordato con i militari, tanto è vero che “il primo presidente democratico non è stato eletto con voto diretto, ma con il vecchio sistema di collegio elettorale creato dai militari”.
Per Natanson la spiegazione di questa tradizione di cambiamenti graduali si trova nelle “caratteristiche di una struttura sociale in cui la distanza tra le classi è oceanica, mentre gli effetti sono paradossali: “se da un lato ha permesso al Brasile di evitare storie di sofferenza” come quelle registrate nei suoi vicini latinoamericani o negli stessi Stati Uniti con la guerra civile, “dall’altro ha fortemente limitato l’incidenza della popolazione nelle decisioni nazionali”.

Questa stessa tradizione di patti e accordi dall’alto, ha contaminato il funzionamento politico dell’alleanza progressista guidata dal PT, al governo dal 2003. Il Partito Trabalhista, e molte delle organizzazioni che lo accompagnarono negli anni di lotta, si è trasformato da partito di opposizione in partito di gestione, perdendo la capacità di canalizzare politicamente il malessere sociale, come ha riconosciuto lo stesso Lula nell’articolo sul New York Times, chiamando a una riforma politica dentro al suo stesso partito: “Anche il PT, che ho contribuito a fondare e che tanto ha fatto per modernizzare e democratizzare la politica in Brasile, ha bisogno di un profondo rinnovamento. Deve recuperare i suoi collegamenti quotidiani con i movimenti sociali e offrire nuove soluzioni per nuovi problemi, e fare entrambe le cose senza trattare i giovani in modo paternalistico”.

I governi di Lula e soprattutto di Dilma sono diventati “governi di sindacalisti e burocrati”. Il PT ha rinnovato, sempre seguendo la regola del gradualismo pacifico, l’elite politica, ma simultaneamente ha “creato nuove aree di confort per i dirigenti che oggi vivono assopiti al calore burocratico di uno Stato che è sempre stato molto generoso con coloro che ne fanno parte, dentro il Governo, ma anche nelle imprese statali, i consigli di amministrazione delle società private, le banche, le agenzie decentrate, i fondi pensione controllati dai sindacati … I tradizionali centri di resistenza anticonservatori – il movimento contadino, il sindacalismo militante, le chiese delle teologia della liberazione – ora fanno parte del nucleo di potere o sono i tuoi alleati”.

Un elemento aggiuntivo rilevato dagli analisti, è la trasformazione lungo questi anni della base sociale del partito di governo, quello che è stato caratterizzato come il passaggio dal pitismo (PT ndr) al lulismo (André Singer).   I principali sostegni elettorali del PT, mostrano i dati, sono cambiati dal nucleo tradizionale di lavoratori delle industrie moderne e settori medi liberali del sudest, agli abitanti del Nordest povero, assegnatari delle politiche sociali e programmi d’assistenza come il Bolsa Familia. Si tratta di un legame recente tra il leader e il sottoproletariato liberato dai caudillos conservatori popolari che li comandavano fino poco fa. Si tratta “tuttavia, di un legame fragile, perché è il riflesso di un inserimento che avviene essenzialmente attraverso il consumo e non è stato accompagnata da uno sforzo equivalente di costruzione di comunità militante e territoriale (come ha fatto, con tutti i suoi problemi, Chavez)”, segnala sempre Natanson.

Questi sono i problemi che deve risolvere Dilma e vuole farlo prima delle elezioni nazionali del 2014. Le stesse che, fino poco fa, tutti erano convinti che avrebbe vinto alla prima tornata, ma che oggi, con una perdita stimata nel 20% dei consensi, sono diventate una strada in salita per garantire, oltre il trionfo, la governabilità.
Una governabilità che appare oggi minacciata di continuo all’interno dell’alleanza di quasi 20 partiti con i quali deve co-governare, consultandosi e accordandosi con i 39 portafogli tra ministeri e segreterie con rango similare che sigillano questa alleanza

Un team di Governo nel quale c’è di tutto, “tranne un’identità comune a livello ideologico o programmatico. Si tratta di uno spazio di controversia tra interessi “di bassa lega”, dove spicca il peggio della politica, osserva un altro analista. “C’è il PT di Lula da Silva e Dilma; c’è il PMDB, un conglomerato di caciques regionali esperti nel ricatto politico e con un formidabile appetito d’incarichi, posizioni e soldi.

 Ci sono le destre più recalcitranti e alcuni rappresentanti delle sette evangeliche elettroniche, con un’ampia penetrazione attraverso la radio e la televisione, e ci sono i sopravvissuti del Partito Comunista del Brasile, che una volta era maoista ed ora nessuno può sapere esattamente che cosa sia. C’è il PSB, il Partito socialista brasiliano, che minaccia di lanciare un proprio candidato per la successione di Dilma, e ci sono quelli di un partito di nuova creazione, il Partito Social Democratico (PSD), il cui leader, l’ex sindaco di San Paolo, Gilberto Kassab, è stato enfatico nella sua definizione: “Non siamo un partito di destra, nè di sinistra né di centro.” (Eric Nepomuceno, “Dilma Roussef en su labirinto”,

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