fatto che in non pochi paesi si intende con esso un poliziotto che svolge indagini, si tratta della denominazione di una carica politicamente molto compromessa. In Unione Sovietica, fra il 1917 e il 1946, esistevano i Commissari del popolo; nell’Armata Rossa i Commissari politici garantivano il rispetto della linea del partito; in Germania, dal 1871 al 1945, ai Commissari del Reich vennero attribuiti grandi poteri, e dopo l’aggressione all’Unione Sovietica, dal 1941 al 1944, i Commissari del Reich ebbero il comando della Germania orientale e dell’Ucraina.
(…)
I nostri
rappresentanti a Bruxelles sono poco amati. Dal Consiglio alla
Commissione, dalla Corte di giustizia all’ultimo assistente nella fascia
più bassa, la loro considerazione lascia molto a desiderare Perché la
maggior parte dei coabitanti del continente fa di tutto per rendere la
vita difficile ai suoi amministratori di fiducia? Con pignoleria vengono
elencati i privilegi e le agevolazioni di cui godono. I direttori
generali delle fasce di stipendio più alte percepisono, si dice, una
retribuzione che è quasi doppia di quella di analoghi funzionari in
Germania. Il 10 per cento dei loro introiti è esentasse, così come gli
eventuali rimborsi forfettari di viaggio, i contributi per la casa, i
figli e la loro istruzione.
Chi non lavora nel proprio paese riceve il 16 per cento di maggiorazione per l’estero. Anche i trattamenti pensionistici sono degni di nota. Un normale funzionario lascia il servizio a 63 anni al massimo, però può accedere al prepensionamento già a 55. Da una persona interna alla Commissione si è appreso che a questi privilegiati le cose vanno bene al punto che è già capitato di ‘doverli costringere con la forza a lasciare Bruxelles’.
Chi non lavora nel proprio paese riceve il 16 per cento di maggiorazione per l’estero. Anche i trattamenti pensionistici sono degni di nota. Un normale funzionario lascia il servizio a 63 anni al massimo, però può accedere al prepensionamento già a 55. Da una persona interna alla Commissione si è appreso che a questi privilegiati le cose vanno bene al punto che è già capitato di ‘doverli costringere con la forza a lasciare Bruxelles’.
(…)
Pur con tutto
l’instancabile immischiarsi nella nostra vita quotidiana, un unico campo
non è ancora stato dissodato. Ed è la cultura. L’Unione non ci ha mai
tenuto molto. Dà fastidio se non altro per il fatto di essere
difficilmente omologabile. Una sola occhiata al budget che l’Unione
mette a disposizione per questo scopo è sufficiente per comprendere
quale sia il problema. Detto bilancio ammonta a cinquantaquattro milioni
di euro, e quindi rientra in una percentuale bassa; più precisamente,
esso significa circa undici centesimi l’anno per ogni cittadino
dell’Unione. In termini di confronto: per spese destinate alla cultura,
la sola municipalità di Monaco di Baviera si concede centosessantuno
milioni di euro.
(…)
E’ deplorevole che
la maggioranza degli etnologi preferisca recarsi in Papua-Nuova Guinea
piuttosto che a Bruxelles; perché lì gli si rivelerebbe un filone di
ricerca molto particolare. Già a prima vista è evidente che chi è
riuscito a entrare in quelle sfere si considera parte di una élite
sovranazionale. Questi funzionari rappresentano la ragion di stato di
uno stato che non esiste affatto. Collocati al di sopra dell’orizzonte
campanilista dei paesi membri, essi si sentono chiamati a tutelare un
interesse generale superiore. Nell’esprit de corps dei funzionari dell’Unione rientra
non solo l’agile padronanza di regole non scritte e di gerghi, ma anche
una nuova variante di internazionalismo.
Qui un legame troppo stretto con il paese d’origine è considerato disdicevole. Si è poliglotti e si tiene molto al fatto che il proprio staff venga reclutato dal massimo numero di paesi membri. Le inevitabili conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. Con la distanza crescono isolamento e autoreferenzialità. Ciò significa pure che le decisioni prese qui sono sempre più difficili da comunicare a chi sta fuori. Ai solerti rei convinti di Bruxelles non si fa torto pensando che l’umiltà non rientri tra le loro doti.
Qui un legame troppo stretto con il paese d’origine è considerato disdicevole. Si è poliglotti e si tiene molto al fatto che il proprio staff venga reclutato dal massimo numero di paesi membri. Le inevitabili conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. Con la distanza crescono isolamento e autoreferenzialità. Ciò significa pure che le decisioni prese qui sono sempre più difficili da comunicare a chi sta fuori. Ai solerti rei convinti di Bruxelles non si fa torto pensando che l’umiltà non rientri tra le loro doti.
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La questione europea
ha preso slancio con l’inizio della Guerra fredda. Il segnale di
partenza l’ha dato nel 1946 Winston Churchill con il famoso discorso di
Fulton, quando non solo coniò l’espressione ‘cortina di ferro’, ma
postulò anche una nuova Europa unita. Naturalmente si riferiva anzitutto
ai tedeschi, cosa sorprendente, se non altro perché non esisteva altro
popolo che, a parte gli indiani, fosse a Churchill più inviso di quello.
Con il suo tentativo pensava naturalmente non tanto al bene dei
tedeschi, quanto alla minaccia sovietica. Nel maggio del 1948
[Churchill] incaricò il genero Duncan-Sandys di organizzare nella
capitale olandese una memorabile manifestazione, oggi del tutto
dimenticata: il Congresso dell’Aia per l’Unificazione dell’Europa. In
quell’incontro lo stesso Churchill assunse la presidenza e tenne il
discorso inaugurale. Dietro non ci stava nessun governo, e ancora oggi
non è affatto chiaro chi abbia finanziato l’operazione. I teorici della
cospirazione sospettano che i servizi segreti americani ci avessero
messo lo zampino.
(…)
Il Parlamento
europeo può prendere decisioni sul budget solo in accordo con il
Consiglio europeo. Un solo rappresentante del Consiglio può bloccare le
decisioni del Parlamento in materia di bilancio. In questo modo la
regola classica che recita No taxation without representation perde
ogni valore. Per la prima volta nel 1979 il Parlamento è stato eletto
direttamente. Da allora la partecipazione alle elezioni è sempre calata;
l’ultima volta si è fermata al 43 per cento. L’impressione è che
l’apatia degli elettori dell’Unione non preoccupi troppo i responsabili,
che guardano impassibili alla loro base di legittimazione. Non è
peregrina la supposizione che ciò vada loro a genio; per ogni esecutivo
consapevole del proprio potere la passività dei cittadini è infatti una
condizione paradisiaca.
(…)
Non solo al loro
interno le istituzioni europee dimostrano di soffrire di una megalomania
che non conosce confini. La loro sfrenata spinta ad ampliarsi è
notoria. Paesi che si fanno beffe di ogni criterio di adesione vengono
integrati contro le regole e senza tante storie. Ogni volta i nostri
piccoli geopolitici anelano ad ampliare sempre più la loro Europa. In
ogni caso l’Unione europea può vantare una forma di potere che nella
Storia non ha esempi. La sua originalità consiste nel fatto di
realizzarsi senza fare uso di violenza. Si muove in punta di piedi. Si
comporta in modo spietatamente umanitario. Vuole solo il nostro bene.
Non tiene assolutamente conto del fatto che noi stessi sappiamo ciò che è
bene per noi; ai suoi occhi siamo per questo troppo impotenti e
immaturi. Perciò abbiamo bisogno di essere assistiti e rieducati a
fondo.
(…)
L’Europa ha già superato ben altri tentativi di uniformare il continente. Tutti avevano in comune la hybris
e nessuno di loro era destinato a un successo duraturo. Neppure la
versione non violenta di un progetto simile può avere una prognosi
favorevole. Tutti gli imperi della Storia hanno goduto soltanto di un
limitato periodo di crescita esponenziale, finché sono naufragati per
l’eccessiva espansione o per le contraddizioni interne.
[Brani tratti da "Il mostro buono di Bruxelles, ovvero l’Europa sotto tutela", Einaudi 2013]
fonte QUI