martes, 17 de mayo de 2011

La Cina e i limiti della modernità

T.PLa Cina ha lasciato alle spalle il modello economico basato su integrali monopoli statali, cominciando una inequivocabile trasformazione, malamente definita da successive ed approssimative catalogazioni, adottate a man salva dagli occidentali. Ricordate il "socialismo di mercato" o il "non importa che abbia quattro o cinque zampe, l'importante è che sappia dar la caccia ai topi"? Molta acqua è passata sotto i ponti, e Pechino si appresta in questo decennio al sorpasso degli USA. L'integrismo globalista è stato un fideismo millenarista.
La Cina è un'economia mista, dove lo Stato conserva un ruolo centrale come asse sovrano che fissa le regole del gioco, ed anche -seppure in modo decrescente- un protagonismo economico non secondario. La nazione cinese ha conservato saldamente la sovranità territoriale, politica, giuridica. Non si è lasciata imporre tutto l'abbecedario neoliberista, di cui è stato preda l'Unione Europea e i fuoriusciti dal "socialismo reale", passati da un estremo al suo opposto. Del G7, solo tre Paesi conservano l'antico status: Canada, Francia, Italia e Regno Unito sono dei desaparecidos
 da questa gerarchia. Sloggiati da grandi Stati-continenti come Cina, India e Brasile.
Il G20 è una stella filante, eclissata dal nascente sole dei BRICS (Brasile, Russia, Cina, India e Sudafrica). Blocco emergente con vari demoninatori comuni: rifiuta la dittatura del mercato sullo Stato, conserva il potere sulla moneta, sulla banca centrale (non appartiene a privati!), sui flussi e le condizioni di accesso alle materie prime. Il mercato, le borse e la pirateria finanziaria non hanno ridotto questi Stati a gestire solo l'ordine publico e la riscossione delle tasse. Difendono ancora spazi variabili come attori economici nazionali e internazionali. Vanno in direzione opposta a quella dell'UE, dove la BCE ha usurpato la politica economica e può sanzionare i governi nazionali -determinati dal suffragio universale- con multe dello 0,5% del PIB (sic).
Riprendiamo questo apporto degli amici di Cineresie per un approccio riflessivo, diretto, documentato da chi in Cina ci vive e lavora, lontano dai vuoti sociologismi fuorvianti, e dalle formule tossiche del sempre più inattendibile latifondo mediatico.

Andrea Enrico Pia
Vorrei coinvolgere i lettori di  Cineresie (qui) in una conversazione sul così detto “modello Cinese“. Questo sito se n’è già occupato in passato, e gli articoli e le interviste qui pubblicate forniscono la cornice generale di quanto dirò in seguito.
Premessa: è ora di considerare seriamente quantoThe Economist ci sta dicendo da tempo e cioè che  la Cina è destinata ad essere la più grande  economia del pianeta da qui a dieci anni. Cosa significa?

Che nel prossimo futuro assisteremo ad un cambiamento non solo nell’ origine dei prodotti che consumeremo – cosa già abbondantemente avvenuta, guardatevi attorno nella stanza in cui state leggendo questo post e contate da quanti oggetti made in China siete circondati – ma che la macchina  per l’ideazione e la riproduzione del sistema produttivo odierno, il capitalismo globalizzato, cambierà proprietario.
Certo, leggeremo e guarderemo ancora per qualche tempo romanzi e film americani. Canada e Regno Unito non smetteranno di rifornirci di giovani band indie. Le materie prime che foraggiano il nostro modo di produzione verranno estratte ancora a lungo dal Medio Oriente, dall’Africa e dal Sud America. Quello che cambierà sarà il sistema in cui queste merci verrano prodotte e distribuite. Ovvero, le regole secondo le quali ci venderemo sul mercato del lavoro, il modo in cui sarà determinato l’accesso a beni di prima necessità come terra, acqua ed energia e la direzione che prenderanno i flussi di capitali internazionali non potrà che cambiare. Infatti, in questi tre ambiti la Cina differisce – e lo fa in modo sostanziale – da quello che abbiamo conosciuto fino ad adesso. Porsi la domanda: “sarà meglio o peggio?“, dunque, non è un mero esercizio di stile.

Se pensate che queste regole di cui parlo siano materia di competenza dei singoli stati, vi consiglio di guardare il bel documentario di Charles Ferguson Inside Job. Il documentario riguarda gli effetti del così detto “neoliberismo”, ovvero la dottrina di politica economica sviluppata principalmente sotto l’amministrazione Bush che ha determinato la politica estera americana ed il mercato del lavoro su scala globale negli ultimi dieci anni. Per chi avesse voglia, Naomi Klein in The Shock Doctrinetocca gli stessi argomenti, ma il libro è così deprimente che si rischia di perdere il sonno.

Un altro bellissimo testo è Il Saccheggio che descrive come anche la Giurisprudenza internazionale sia stata profondamente alterata dall’incontro con il neoliberismo, a tal punto da diventarne uno dei veicoli più efficaci.

Ora,  la questione è la seguente: si è parlato della Cina come di un paese che ha accolto a braccia aperte questa nuova deriva ultracapitalista imposta da Washington. Sicuramente vero. Ivan Franceschini su questo sito ha documentato più volte, ad esempio, come i diritti dei lavoratori cinesi siano stati irrimediabilmente travolti dall’apertura al mercato globale.  Tuttavia ci sono alcuni settori economici chiave in cui il sistema cinese si discosta, stranamente, dalla vulgata globale promulgata dalla dottrina neoliberista. Ne cito brevemente alcuni.

1) Proprietà privata
La proprietà privata: il neoliberismo l’ha a cuore e sostiene che senza chiari e coerenti diritti di proprietà l’economia non decolla. Sia in campagna che in città, la Cina mantiene un sistema misto, che facilita la riallocazione dei beni. Nella campagna cinese questo avviene spesso (non sempre) in base ai bisogni. La terra viene girata a chi è meno abbiente, per un periodo determinato di tempo. 
Questo è uno dei princìpi cardine su cui si regge la teoria della “società rurale armoniosa” del governo di Hu Jintao. Oltertutto, la Cina si è mostrata restia a privatizzare aziende statali collocate in settori strategici come l’energia e le risorse naturali. Cosa che è avvenuta invece in molti paesi trattati con la terapia dello “shock” di cui parla Klein, aperti forzatamente al mercato globale da politiche neoliberiste.

In questi paesi, il risultato è stato la creazione di enormi disparità fra ricchi e poveri. David Hardy parla a proposito di “accumulo per dispossesso“. Certamente in Cina vi sono grandi disparità fra città e campagna, ma alcuni dati sembrano suggerire che mentre in paesi soggetti al neoliberismo puro la disparità è aumentata negli utlimi dieci anni, in Cina questa sia diminuita (l’indice GINI è aumentato di 4.2 punti dal 2001 negli USA e di 1.5 in Cina; alcune fonti riportano addirittura un decremento di sei punti in Cina negli ultimi 3 anni).

2) Finanza

La finanza in Cina è regolamentata. La borsa di Shanghai ha delle quote massime di scambio dei capitali mentre alcuni prodotti finanziari sono illegali. Ovviamente un mercato finanziario estremamente de-regolato e ultra-capitalizzato è un marchio distintivo del neoliberismo.

3) Responsabilità sociale d’impresa

Recentemente la Cina ha compiuto un grande passo avanti nella giudicalizzazione della responsabilità sociale di impresa in connessione con reati ambientali. In Europa ed in America i casi concernenti la contaminazione o il sovrasfruttamento di risorse ambientali sono quelli maggiormente resistenti alla creazione di precedenti significativi nella giurisprudenza che li regolamenta. Detto altrimenti, mentre la BP paga negli Stati Uniti per il disastro ambientale causato da una delle sue piattaforme, niente le vieta di tentare una impresa rischiosa almeno quanto quella a largo della Florida,  nell’Artico, come Greenpeace ha riportato recentemente.

Questi sono solo alcuni dei punti su cui i “modelli” differiscono. Ma su cosa differiscono in definitiva? Sembra chiaro che la Cina appaia al momento molto più Keynesiana di noi occidentali.
Lo Stato interviene maggiormente in questioni economiche in base a principi di interesse pubblico. Ovviamente, il welfare cinese è lungi da avere il peso che questo ha nella teoria Keynesiana. Ma sembra muoversi in quella direzione. Dall’altra parte dell’oceano o all’altro capo dell’Eurasia invece, le cose sembrano andare molto più alla maniera di Milton Friedman, demiurgo del neoliberismo, secondo il quale il “buon governo” si ha solo assecondando gli egoismi dei singoli individui, il prodotto dei quali è un libero mercato massimamente efficiente.

All’inizio del post mi sono posto una domanda piuttosto neutra: “sarà meglio o peggio?”. In un certo senso la domanda dice già tutto sul vero problema che emerge paragonando la Cina agli stati Europei o agli Stati Uniti. In ambe due le facce del globo infatti le forze scoperchiate dalla globalizzazione vedono i cittadini subire più che comandare questi processi. In democrazia come sotto il Partito. Ci chiediamo “Sarà meglio o peggio?”, ma non “sarà così o no?”.
Questo post è stato ispirato dalla lettura di The End of the Revolution: China and the Limits of Modernity, di Wang Hui.






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