“Storia di una indocumentata- Attraversamento del deserto di Sonora- Arizona", Edizioni ARCOIRIS
“Abbiamo perduto per strada perfino il diritto di chiamarci americani,
anche se gli haitiani e i cubani si sono affacciati alla storia come
popoli nuovi un secolo prima che i pellegrini della Mayflower
si stabilissero sulle coste di Plymoth”
(Eduardo Galeano, Le vene aperte dell’America Latina)
Gentiana Minga Ventisei anni fa, un ragazzino dei borghi di Durazzo, seguendo il fiume rumoroso di gente proveniente da tutte le parti del paese si è trovato a bordo della nave mercantile Vlora. Il 7 agosto 1991, la nave era di ritorno da Cuba, carica di zucchero di canna, ma una folla di circa 20.000 persone
costrinse il comandante a partire per l’Italia. Un giorno dopo, lo stesso ragazzino si è visto a Bari sotto le grandi tende con altri ragazzini rannicchiati per terra, un po’ sperduti e un po’ meravigliati. É cosi che sono diventati prima in – documentati, clandestini sul suolo del mondo. Uno scrocchiare le dita. Per loro era come se stessero seguendo un aquilone. Anche Alice ha varcato i confini, perché annoiata di stare seduta accanto alla sorella intenta a leggere un libro tra l’altro senza figure e senza dialoghi; s’infilò nella buca della conigliera seguendo uno strano Coniglio bianco. E se fosse così limpido il viaggio come nelle favole, o come nelle avventure dei ragazzi?
Più delle volte si diventa indocumentati per costrizione. Quel che è curioso è che non si pensa seriamente al tragitto, allo spazio da percorrere dal punto x al punto y. Chi ha scelto il mare cerca di non considerare un improvviso impazzimento delle onde. Ci si concentra sull’obiettivo per azzittire la paura che ugualmente si fa sentire con l’arrivo della notte quando barlumi di luce frivola della luna e delle stelle colano sulle guance e sulle palpebre trovandoti sola e insicura.
So poco o niente di quanto succede lungo e attraverso il confine tra Messico e Stati Uniti, del muro della vergogna come viene definito dai messicani. La costruzione ebbe iniziò nel 1990 da George Bush senior, ma il progetto fu sviluppato da Clinton, per poi essere firmato nuovamente da George.W. Bush, junior nel 2006. Prima di lui, la proposta fu ratificata dal Senato americano con 80 voti a favore e solo 19 contrari; tra i favorevoli spiccano i voti di Hillary Clinton e di Barack Obama. Ho letto molte storie su Tijuana, Las cruces de Tijuana, del muro tragico, serpentino cui venne inserito la croce di legno con su scritto il nome del migrante che non potendo attraversarlo vi ha lasciato la vita. Un trofeo per chi lo scavalca, come canta Manu Chau in “Welcome to Tijuana”: “Benvenuti a Tijuana/ con il coyote non c’è dogana/ per strada/per strada/per strada …”.
Il cimitero sul suolo messicano a fianco del muro divide la sconfitta dalla vittoria. Dall’altra parte i cadaveri non identificati vengono registrati come John Doe se sono uomini. Altrimenti Jane Doe. Tizio e Caio, Mario Rossi all’americana.
Chi parte è nelle mani di coyote. Coyote, come Canis latrans, lupo da prateria e animali notturni. Accompagnatori pagati come guide nel deserto. Ci s’incammina di notte, prima che sorga l’alba. Sagome maldestre di Virgilio che vagano con gruppi di 14-20 “alieni” verso i recinti di ferro, alti da due fino a sei metri. Guide il più delle volte impreparate agli imprevisti e carnefici spietati.
“…Vidi coyotes tirare fuori coltelli da macellaio e sgozzare quelli che gridavano dal dolore provocato dalle ferite che si facevano sulle recinzioni ,non volevano sentire nessun lamento che allertasse la pattuglia di frontiera (…) Minacciavano tutti allo stesso modo con quei coltelli da macellaio e con le pistole e cosi facendo chi voleva lamentarsi ci pensò su due volte…” .
Il brano è tratto dall’ultima pubblicazione di Ilka Oliva Corado. “Storia di una in documentata- Attraversamento del deserto di Sonora- Arizona.
Il libro è la sua testimonianza, il suo viaggio atroce per giorni interi tra arbusti e cactus di Sonora – Arizona, immersa nel buio, camminando in fretta, sgambettando tra terra pietrosa e cadaveri, tra l’ululare dei cani e la paura di possibili imboscate della Migra, la famigerata polizia di frontiera statunitense. I dossier sono colmi di denunce per stupri di gruppo da parte della Migra, sevizie e uccisioni, cani che vengono sfamati con brandelli di carne umana di wetback, schiene bagnate del sudore. Il libro descrive la corsa incredibile di centinaia di indocumentati che si scagliano sui recinti a mezzanotte in punto prima dell’arrivo delle guardie di frontiera. Qualcuno rimane sopra con il corpo squarciato dalle spine di ferro, qualcuno muore in silenzio con la testa spaccata da un salto disattento, mentre i più fortunati precipitano angosciati verso il buio.
Ilka nasce a Comapa, dipartimento di Jutiapa in Guatemala, El pais de la eterna primavera , nel 1979. In Guatemala si diploma in educazione fisica per poi diventare un arbitro di calcio. È una donna estremamente forte e determinata. Quando decide di emigrare in Stati Uniti è iscritta alla Facoltà di Psicologia all’Università di San Carlos di Guatemala .
Ilka parte per il Messico da Jutiapa, “La cuna del sol”. Una cordigliera vulcanica che giunge al suo termine sulle terre guatemalteche dove tra le montagne e il mare si stende la città di Jutiapa. La ragazza ha addosso vestiti né troppo seri, né troppo colorati. La sobrietà misurata che le eviterà l’attenzione degli agenti dell’immigrazione all’aeroporto di Città del Messico. Solo duecento dollari in tasca e un sacco di risposte pronte. È in Messico per incontrare “la zia” che non vede da due anni. La zia la sta aspettando fuori dall’aeroporto: il primo coyote che la guiderà nelle sue fughe rocambolesche lungo il territorio messicano fino a Agua Prieta è una donna.
Così dall’aeroporto si va verso Morelos, poi a Jujutla, a casa della coyote. Da qui si mette ad imparare meticolosamente la storia e geografia del Messico, l’accento degli abitanti di Veracruz, nomi di fiumi, di strade, dei governatori. L’inno nazionale e canzoni tradizionali di Morelos e Guerrero. Impara a cucinare pozole, la squisita zuppa messicana. Lo prepara perfino la sera prima di partire per un gruppo di donne con cui ha fatto amicizia. Mangiano e cantano. Una suona con la chitarra canzoni dei tempi di Pancho Villa, pezzi di Antonio Aguilar e Pedro Enfantes e le altre intonano fino a sera tardi: “ Cuando lejos me encuentre de ti / cuando quieras que yo esté contigoooo….”.
Quella sera non avrebbe mai potuto immaginare, che anni dopo, da casa sua a Chicago avrebbe pubblicato il 24 aprile del 2016 sul blog Pressenze, un articolo coraggioso intitolato “America Latina, Golpe e resistenza” in cui scrive :
“Oggi le dittature hanno cessato di essere sanguinose. Gli Stati Uniti e l’oligarchia latinoamericana hanno cambiato la loro strategia. Il modello adesso è aziendale. E’ un nuovo modello di guerra sporca, un nuovo modello di Plan Condor dai tratti morbidi”. Oppure che il 26 giugno del 2017 avrebbe inviato una lettera aperta e appassionata a Cristina Fernandez de Kirchner intitolata “Cristina e la sua testardaggine da mulo”: “… nel mio villaggio – scriverà alla presidente dell’Argentina – “Essere un mulo è un onore e con ciò volevo onorare te”. Adopera una speranza fresca e genuina quando dichiara: “… il tuo nome, che già è scritto nella storia, passerà di bocca in bocca, di generazione in generazione, come il mito e la prodezza di una donna che ha osato fare la patria. Sono qui ai tuoi ordini, mia bella presidente”.
Tornando alle vicende del lbro la mattina dopo la serata con pozoles e canti di Enfantes e Aguilar, la ragazza è già in piedi travestita con scarpe col tacco, truccata per bene e capelli acconciati in una treccia. Con una borsa sul braccio e uno zaino nell’altro salirà a bordo di un aereo che la porterà fino a Sonora. Da lì s’infilerà in un pullman verso Agua Prieta. Dentro lo zaino ha l’indispensabile per attraversare il deserto a piedi: pantaloni, guanti e passamontagna neri, scarpe da tennis blu. Quando arrivano nelle vicinanze di Agua Prieta e scendono di fronte ad una taqueria per mangiare tacos, lei cerca una toilette e:
“ …. una delle cameriere di sala mi indicò la parte laterale del posto, il bagno stava fuori. Aprii la porta e con stupore mi ritrovai con un gruppo di undici tipi che mantenevano bloccata a terra una ragazza nuda di cui stavano abusano sessualmente, mentre altri la mantenevano ferma per non farla muovere, e altri ancora aspettavano il loro turno”.
Chiude la porta e si precipita tremante in cerca di aiuto. É disperata e non si rende conto che gli uomini sono armati e nessuno può fare niente. Nemmeno lo zio della ragazza, un uomo di cinquant’anni che la stava aspettando inerme mentre la stuprano in fila. Dopodiché, scrive lei “lo zio e altri uomini andarono a sollevarla, la fecero salire sul taxi e partirono verso la frontiera”.
Verso Agua Prieta, la città fantasma, un cimitero di case rovinate, alberghi fatiscenti, porte e pareti bucati da proiettili. Dopo una notte a El Gira Sole, alle 5 del pomeriggio sono pronti per partire. In diciassette: otto donne e nove uomini. Si sono incontrati fuori città, in un punto preciso del deserto, tra alcuni cespugli dove li stava aspettando il secondo coyote, un ragazzino di diciassette anni, nativo di Guanajuato. Camminando in gruppo per tutta la notte devono arrivare al confine a mezzanotte in punto. Hanno solo 10 minuti di tempo per varcare quattro recinti di ferro. Due da una parte e due dall’altra i 10 minuti preziosi del cambio della pattuglia. Da quel momento: “stava per cominciare la mia titanica traversata dei deserti di Sonora – Arizona”, scriverà lei.
* * *
Il 27 ottobre del 2003, in una casa umile di Comapa nel dipartimento Jutiapa di Guatemala, alle 5 in punto di mattina suona l’ultima sveglia guatemalteca per Ilka Olivieri Corado. Il suo alito sa di chicha, due litri consumati con la madre una sera prima. Loro due da sole. Una ha brindato alla vita, l’altra ai ricordi. In Guatemala, la chilipuca è un fagiolo grande e nero . Dalle altre parti si chiama anche piloy .
Quando nacque, vedendola uscire di traverso , nera e avvolta di una patina bianca , la sua bisnonna materna, disse la frase profetica : “To’ questa chilipuca è nata fortunata”.
In Guatemala “quando le vacche e le giumente partoriscono, se il piccolo è avvolto da una patina bianca, porta fortuna”. Ė per questo che la chiamarono la Chilipuca fortunata.
Quell’alba guatemalteca per lei potrebbe essere l’ultima. Non riesce a smettere di pensare ai tramonti d’ottobre, il garofano rosso di doña Joana, la vasca di plastica fuori in giardino con l’acqua scaldata al sole in cui faceva i bagnetti ai suoi fratellini. La nebbia delle mattine d’agosto, il padre mentre tesse la sua rete da pesca. La doña Tibia, i suoi bagni purificatori con l’acqua di sette erbe e il suo fumarsi un sigaro. Un dono per il dio Maximon, colui che protegge il raccolto dei contadini e la donna amata dalla tentazione di un altro uomo. Ma sa che non può fare niente, perderà tanto e tutto cambierà. Il destino della sua gente, l’amore e il viso della fame, il mondo:
“Qui era una valle, ora si leva un monte. Là era un monte, ora c’è un abisso. Il mare pietrificato si trasformò in montagna e i lampi si cristallizzarono in laghi. Sopravvivere a tutti i mutamenti è il tuo destino. Non v’è fretta né bisogno. Gli uomini non finiscono”
(Miguel Angel Asturias, Sabituria Indigena)
Mentre si avvia verso la strada, Ilka Olivero Corado inizia così il suo calvario :
“Chiudo il cancello del giardino e guardo per l’ultima volta le malva rosa di colore violaceo, le stelle di natale fiorite e le pietre vulcaniche portate dalla laguna di Calderas. Salgo in macchina e mi dirigo verso l’aeroporto”.
https://cronicasdeunainquilina.com/2017/10/02/recensione-a-storia-di-una-indocumentata-di-ilka-oliva-corado-gentiana-minga/#more-7220
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