Nè rivoluzione colorata, nè bolscevica: processo di trasformazione nazionale sempre osteggiato dall'Occidente
Tito Pulsinelli
E’ uscita di scena l’usurata protesi vitalizia con cui l’Occidente controllava la nevralgica foce del Nilo, il canale di Suez e le sue genti. Si volta pagina, va a casa l’uomo preferito da Washington, Bruxelles e Tel Aviv. Cade il sicario -perdon, sipario- su un regime spacciato sul mercato mediatico come esemplare, contraltare degli incorreggibili “cattivi” di Teheran. Il nodo bubbonico delle forze che si reggevano principalmente sugli “aiuti” militari USA e la svendita del gas a Israele
, è stato parzialmente reciso dall’estesa coalizione sociale e politica che incarna il reale “partito della nazione”. Rimane provvisoriamente sulla scena Suleiman, il surrogato designato da coloro che si illudono di salvare la sostanza dell’assetto in via di demolizione, con manovre chiaramente gattopardesche. E’ un miraggio ricorrente in simili scenari, basato su equilibri fuggevoli e instabili. Dopo la caduta dello Sha di Persia si avvicendarono vari “successori” di cui si è perso memoria; dopo il crollo dell’equivalente filippino del faraone, idem; dopo la bancarrota dell’Argentina si alternarono 5 presidenti, durevoli come i funghi.
La questione non si risolve solo con un look elettorale, meno indecente di quello ultratrentennale che riceveva il plauso degli “occidentali” a ranghi completi; nè con qualche giornale in più, radio o televisione appartenente agli stessi gruppi; non con più talk show
o “alternanza politica” intesa come facce nuove ricambiate con più frequenza; nè con concerti pop e libertà di minigonna.
Nel “partito nazionale” non mancherà chi si accontenterà di questo, soprattutto tra i ceti medi e metropolitani, ma per l’immensa maggioranza si tratta di conquistare più reddito, attraverso più occupazione, accesso ai consumi e servizi vitali, istruzione e salute.
Si arriverà al nodo scorsoio del modello economico vigente, disegnato dagli architetti del FMI e basato sulla svendita del gas e materia prime, privatizzazione ad oltranza, e spartizione degli “aiuti” militari yankee, tra l’alta gerarchia militare e le elites legate al mercato internazionale delle importazioni. Sarà sotto processo un modello sbilanciato verso l’esterno, funzionale e vantaggioso solo per l’oligarchia. Sarà giocoforza metter mano a soluzioni più endogene, incentrate sul mercato interno e che si abbevera all’identità, ai bisogni e alla domanda nazionale.
Non “rivoluzioni colorate”, nè bolsceviche, nè longa manus di chicchesia. Si
tratta di un processo di trasformazione genuino, originale, di cui si è conclusa la prima fase. Si aprono fessure profonde nel muro di contenzione eretto dalle oligarchie locali, eterne
vassalle delle antiche potenze coloniali. Oggi succube del modello liberista con cui autorizzano a depredare le risorse, il lavoro delle genti e la sovranità dello Stato-nazione. Svuotato di potere dalle nuove istituzioni “globali”, vere braccia armate dell’Occidente.
Il pallino è in mano alle forze armate –non solo ai generali- ma l’iniziativa rimane a chi ha fatto scoccare la scintilla che ha infuocato le palizzate. A Wall street e nella City non fanno salti di gioia, neppure al Pentagono e alla NATO. L’alta gerarchia militare egiziana percepisce che gli Stati Uniti non sono più quelli d’una volta, e non garantiscono invulnerabilità e stabilità. Non basta il sostegno dell'Arabia saudita. Israele è isolato da quando la Turchia gli ha voltato le spalle ed agisce in sintonia con l’Iran e la Siria , persino in Libano è tornato al governo Hezbollah.
Per placare la tormenta sociale interna e diradare le nuvole nere che si sono addensate, o si fanno concessioni o ci vorrà un regime più tirannico e liberticida. Forse, è più vantaggioso guardare al paesaggio che il multipolarismo fa emergere in Medioriente e Nordafrica, e trarre maggiore profitto dal Canale, dagli idrocarburi, da una superiore coesione sociale degli egiziani, e dall'alternativa offerta dagli altri attori globali in termini finanziari, economici, militari e commerciali. L'ex egemonia assoluta dell'Occidente è sempre più relativa.
5 comentarios:
""Né “rivoluzione islamica” né “ribellione popolare”: L’Egitto marcia verso la “democratizzazione” imperiale USA.""
...per una volta sarai d'accordo con Manuel Freytas!
:D
;)
No, per me il motore di avviamento degli eventi egiziani non é il Dipartimento di Stato, ma i "comitati popolari" che hanno innescato e poi gestito -a fianco dei soldati- la quotidianitá al Cairo e nelle altre cittá.
Senza di loro, Mubarak sarebbe ancora a Palazzo.
Quelli che vedono "rivoluzioni colorate" dappertutto, si illudono se credono che tutto si sia risolto con lo sventato e funesto scenario del trapasso del potere al figlio Gamal.
E' finita la Fase 1 di un processo di "rivoluzione nazionale", che i cultori della "presa del Palazzo d'Inverno" disdegnano, perché non lo comprendono. Per loro é sempre troppo poco,rispetto alle loro aspettative o aviti onirismi teorici. Anche Allende era poca cosa, peró non per Kissinger e la ITT che da subito cospiró per stroncarlo.
I generali -senza i colonnelli- non riescono quasi mai a conservare il dominio, e a preservare le condizioni stabilite dasgli USA e Israele. C'é una corrente "nasserista" tra i sottufficiali egiziani?
Il cosiddetto "smart power" si affermó in Honduras perché alla resistenza popolare NON si affiancarono i colonnelli con un ruolo attivo o con neutralitá(come avvenne in Venezuela e Bolivia).
Un progetto di trasformazione che non contempli strategia e tattica, non ha nessuna prospettiva reale. "Tutto o niente", significa niente. Non c'é cambio se non é collocato all'interno di una dimensione nazionale ed in un tempo determinato.
Nemmeno io credo che il potere sarà tramandato al figlio, e credo che queste rivolte siano nate spontaneamente e quindi agli Usa non è rimasto null'altro da fare che fare buon viso a cattiva sorte, ma credere o sperare che non ci saranno ingerenze è un pò ingenuo.
Anche perchè gli Usa avevano previsto da mesi questi scontri, e nel frattempo hanno addestrato ed armato (attraverso il Pentagono) l'esercito egiziano, in vista degli scontri "urbani" che avevano previsto, come ha segnalato Manlio Dinucci.
Ma forse sono io che sono troppo pessimista...
Non sei pessimista,direi sanamente realista, infatti si sono mossi dall'esterno per erigere una linea di contenzione, e interferire per limitare i danni. Non è un pilotare, o muovere i fili dei pupazzi, come dicono in troppi e da troppe parti.
Per ora, il potere è nelle mani dei generali formati negli USA ed abituati a "gestire" 1 miliardo e mezzo di mazzette destinate ai pretoriani. Per ora, persino Suleiman -sponsorizzato principale d'Israele- è riuscito a mettersi in prima fila.
Per ora. Ma in Egitto non ci sono state solo manifestazioni coraggiose e decisive, ci sono vari scioperi che attecchiscono a macchia di leopardo; tra cui quello dei trasporti e treni. I generali chiedono la fine degli scioperi,ma gli altri chiedono una serie di cose che diano sostanza concreta alla ribellione.
Bisogna guardare in quella direzione: chi sparla di "rivoluzione colorata" rende un buon servizio ai generali, agli USA e ai sionisti. E irride alle ragioni dei rivoltosi, che non sono tornati a casa a guardare le apparizioni in TV di El Baradei (uomo di Soros). Sono ancora attivi e guardano avanti.
Infatti è una fase molto delicata questa, per gli Usa e Israele perdere una roccaforte come l'Egitto in un punto così strategico nel MO, sarebbe una sconfitta enorme, credo siano disposti a tutto.
Anche questo articolo esprime questo concetto:
http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=6499
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