jueves, 15 de octubre de 2015

AMERICHE: La resistenza indigena alla colonizzazione occidentale



Stavolta persino in 12 città degli USA non hanno commemorato  il 12 ottobre 1492. Perchè lo sbarco di Cristoforo Colombo è l'inizio di uno sterminio, un etnocidio che ha "estinto" vari popoli originari. Con la benedizione della Croce in connubio con la Spada. Proponiamo una sintesi del discorso dell'ambasciatore del Venezuela a Roma, Julián Isaías Rodríguez Diaz, in occasione del Giorno delle Resistenza indigena.


«Per gli usurpatori della memoria, coloro che furono conquistati ignorano come si fa la storia. Per questo, devono consegnarcela già fatta. Per loro la dignità non è più di una catena di fatti privi di senso. Colombo credette di essere sbarcato in Oriente dalla porta di dietro, credette di trovarsi in India, credette
che Haiti era il Giappone e che Cuba era la Cina e, nonostante questo, si continua a dire, irresponsabilmente, che l’America fu scoperta da lui. 

Sapevate che per gli europei di quel tempo eravamo persone con code cosi lunghe da poterci sedere solo su sedie che avessero dei buchi? Che per quegli europei avevamo gli occhi sulle spalle e la bocca sul petto? Che avevamo delle orecchie grandi, ma così grandi da portarcele dietro strisciandole per terra? E, peggio ancora, avevamo i piedi a rovescio, con i talloni davanti e le dita dietro?



Eduardo Galeano, che racconta questi aneddoti, ha contrastato questo incosciente manifesto della storia ufficiale, sostenendo che quella che gli europei chiamavano "scoperta " in realtà non è mai avvenuta. Ciò che accadde fu un’altra storia, un'altra scoperta: l’ America Latina, la Nostra America, come la chiamò José Martí, scoprì prima una barbarie mescolata alla religione con la brutalità di una repressione senza precedenti e poi un liberalismo che trasferì il suo egoismo prima nel capitalismo e poi nella globalizzazione.
Molto tempo prima di Cristoforo Colombo, in America c’erano stati i vichinghi e prima dei vichinghi i nonni dei nonni dei nostri trisavoli. Vivevano nella Nostra America e misero un nome al mais e alla patata. Misero un nome al cioccolato, lo stesso che l’Europa mostra in diversi itinerari turistici. Nel 1492 Cristoforo Colombo scrisse sul suo diario che voleva trasferire i nostri antenati in Spagna, affinchè apprendessero a “fablar español”.

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 Sembra che avesse voluto far intendere che solo parlando il castellano i nostri anziani potevano diventare esseri umani. O forse per avere “il titolo di persone” dovevano iniziare con il rinunciare alla loro identità? Citiamo di nuovo Galeano per riaffermare che il proposito degli europei era “cancellarci l’anima” e praticare, come fanno ancora, “EL OTROCIDIO”. Galeano scrive che chiamarono “selvaggi” i nostri antenati e non si sbagliarono perchè nessuno di loro fu capace di chiedere un visto, né una lettera di invito, né una somma diaria di euro, né un certificato di buona condotta, né un permesso di lavoro all’Europa, così come stabilito dall’Accordo di Schengen.
E continuano ad essere così selvaggi che, come scrive il poeta venezuelano Gustavo Pereira, la popolazione dei Pemones chiama la rugiada Chiriké Yetakú, che significa saliva delle stelle; le lacrime le chiama Enú Parupué, che vuol dire succo degli occhi e il cuore Yewám Enapué, che significa seme che si trova in cima al ventre. Sul delta dell’ Orinoco la popolazione dei Waraos chiama Mejokoji l’anima, che significa sole del petto. Ma Jokaraisa significa il mio altro cuore ed indica un amico. Dimenticanza si dice Emonikitane e significa perdonare. Per loro la terra è madre e la madre è dolcezza. Che selvaggi!
L’attuale premio Nobel della letteratura, Mario Vargas Llosa, in un momento infausto, ha scritto che “non c’è altro rimedio se non quello di modernizzare gli indigeni anche le loro culture dovranno essere sacrificate”. Per questo distinto scrittore: “…è l’unico modo per salvarli dalla miseria”. Non voglio credere che, aldilà di quanto affermato, l’autore de La città e i cani abbia voluto dire, come qualcuno pensa, che  “per salvare gli indigeni bisogna mettergli un uniforme perchè si uccidano gli uni con gli altri o muoiano difendendo lo stesso sistema che li nega”. Abbiamo letto con diletto La festa del caprone, la sua magistrale denuncia contro il trujillismo nella Repubblica Dominicana e non potremmo mai immaginare che: “…la modernizzazione a cui si riferisce Vargas Llosa sia svuotare gli indigeni             dall’ indigeno che portano dentro e ridurlo ad un non-indigeno…”

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Nei nostri indigeni c’è troppa poesía per negargli la loro lingua. Cantano alla sabbia e ai boschi. Prendono il volo nel martin pescatore e volando dicono: “Sali sulle mie ali per bere insieme il vento”. Cavalcano ottimisti sulle libellule e quando sellano i loro cavalli nel cielo lo fanno per cercare la pioggia. Quella magia e quei sogni da molto tempo non sapevano dove andare, perchè nel 1614 l’arcovescovo di Lima aveva bruciato i loro flauti, le loro danze, i loro canti e i loro strumenti musicali.
Forse è per questo che un Arcivescovo africano, contestando un altro Arcivescovo europeo, alludendo al saccheggio dell’identità degli africani, in una bellissima frase affermò: “I sacerdoti avevano la Bibbia ed i nativi avevano la terra; qualcuno gli chiese di chiudere gli occhi e pregare. Lo fecero, ma quando li aprirono di nuovo gli altri avevano preso le loro terre e a loro restava soltanto la Bibbia”. I conquistatori, in realtà, non usano più vestiti di ferro, ma usano uniformi diverse, con cui assaltano il Vietnam, l’ Afghanistan, l’ Honduras, l’Iraq ed anche il Venezuela, circondata da altri marines che vogliono privarla della sua libertà e della sua sovranità, cercando di togliergli anche la sua identità.   

Perdonate, forse avrei dovuto iniziare questo discorso sulla resistenza indigena parlando di Abya Yala. L’emozione, la passione o la follia mi hanno portato da un’altra parte.  Permettetemi di iniziare dai nomi che sono stati attribuiti al continente. Ibero-America ricorda il saccheggio coloniale. Non percepite in questo nome un feroce razzismo? Passiamo ad un altro nome: America Latina. Non vi sembra che con questo nome si voglia nominare in modo eurocentrico il nostro continente? Con questo nome non si lascia fuori di noi una parte importante della nostra popolazione originaria e afroamericana? Non si estirpa da noi l’identità dei Chiluba, i Nkrumah, i Kenyatta,i Nyerere e i Mandela? Non vi sembra che vogliano tooglierci e sopprimerci un pezzo, un frammento della nostra orgogliosa identità africana?
Abya Yala è il nome dato al continente americano dal popolo Kuna a Panamá e in Colombia prima dell’arrivo degli europei. Significa terra in piena maturità o terra di sangue vitale. Oggi, diverse comunità e istituzioni indigene preferiscono l’uso del termine Abya Yala per riferirsi al territorio continentale, al posto della parola America. L’uso di questo nome rimanda a precise posizioni ideologiche, dicono. America o Nuovo Mondo sono espressioni del colonialismo. Il popolo Aymara difende il termine Abya Yala per respingere il nome  straniero che disonora la nostra identità e si sottomette alla volontà degli invasori e dei loro eredi.
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Le nostre prime manifestazioni di indipendenza non sono quelle che festeggiamo. Le nostre prime manifestazioni di liberazione furono quelle belle, coerenti, immutabili, invariabili e tenaci manifestazioni di "resistenza indigena", la resistenza all'idea di "progresso " portata dall’ Europa durante e dopo la conquista. Quella stessa idea di " progresso" ha distrutto non solo gli esseri umani, ma la terra e l’ acqua, il clima e gli alberi, le montagne, i fiumi e i venti. La barbarie contro i nostri primi abitanti produsse, nel nostro continente, il più grande olocausto della dell'era moderna.
Alcuni vedono il contatto dell’ Europa con noi come un "incontro tra due culture. Ma quale incontro tra due culture! Si può chiamare incontro un’ invasione coloniale? Quelle di ieri! O quelle di oggi! E quelle di sempre! Quell'incontro non fu altro che il più grande genocidio commesso dall’Europa. La distruzione di civiltà millenarie che avevano scoperto lo zero mille anni prima dei matematici europei. Che avevano conosciuto le età dell'universo 1500 anni prima di Copernico, Brahe, Kepler e Galileo, per citare i più grandi di quell’epoca. Civiltà che conoscevano il buon senso come senso di comunità senza scopo di lucro, senza nemmeno  pensare alla proprietà privata. Queste civiltà annullate, demolite, devastate avevano scoperto che l'uomo è tempo e che per possedere una sacralità non era possibile venderlo ne comprarlo.

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Nella storia ufficiale, quella nobile resistenza indigena fu estirpata quasi completamente. La conquista e la colonizzazione furono, per l’ Europa, atti presuntamente pacifici in cui presuntamente vennero rispettati tutti i diritti umani e in cui ci viene accusato il fatto di aver accettato pacificamente il saccheggio. Oggi occorre sottolineare che la “resistenza indigena” risulta di innegabile e incontestabile utilità per poter comprendere con coscienza e sapienza gli attuali processi sociali che si sviluppano in Bolivia, Ecuador, Nicaragua, Brasile, Argentina, Cuba e Venezuela.

I nostri attuali processi politici, sociali ed economici non sono altro che il seguito di quella straordinaria resistenza indigena, con altri mezzi e in un tempo inventato dall’angoscia e destinato, come diceva il Che,  a lottare per l’impossibile . Un profeta maya che parlava per gli dei a suo modo disse: “…saranno liberate le mani, i piedi e i volti del mondo...ma quando  sarà liberata la bocca non ci sarà nessuno che non l’ascolterà”

Le rivoluzioni americane oggi hanno il proposito di riscattare questa parte della storia taciuta. In questo senso, l’idea è di andare oltre “l’indipendenza politica conquistata contro la Spagna e il Portogallo durante il XVII secolo”.  Raccontiamo, per favore, la storia reale: l’Europa competeva per trovare strade più veloci per arrivare in Asia … così giunse prima in Africa e poi ad Abya Yala. Per l’Europa Abya Yala non era un continente sconosciuto ma un pianeta sconosciuto che si trovava più in là di dove finiva il mondo. Luis de Camoens lo scrisse all’estremità occidentale dell’Europa, dove c’è un monumento che riporta questa frase: “Qui finisce la terra e comincia il mare”.

Ad Abya Yala, tre grandi civilizzazioni costruirono un’altra idea di “progresso” e “civilizzazione”. Alcune delle loro città divennero più grandi di quelle europee. Aztechi, Maya e Incas fecero, senza dubbio, progressi più significativi nella giustizia sociale ed economica che l’Europa.

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Il comune denominatore di queste tre civiltà è stata una società equa, in cui la cosmovisione ancestrale del “buon vivere” (meditare, pensare e riflettere in armonía con la natura) viene differenziata dall’american way of life. La prima visione costituì ciò che oggi sarebbe un cambiamento di paradigma alla concezione capitalista del vivere. La seconda invece, è un comportamento in cui un individuo apparentemente migliora la qualità della sua vita attraverso il lavoro, mettendo in pratica abilità competitive ed individualiste in una società fondata sul libero mercato.
La purezza del “buon vivere” e delle sue tradizioni comunitarie ci porta a non competere ed a non concepire la vita secondo una prospettiva individuale. “Buon vivere” è agire in comunità e in armonía con la natura e l’universo e, allo stesso tempo, avere un rapporto di reciprocità con essi. La cosiddetta american way of life è un fattore che conduce alla distruzione del pianeta ed alla disuguaglianza sociale. E’ un modo per avere di più, per competere con gli altri, cercando di essere migliori di loro e mette dal presupposto che c’ò che è materiale ha più valore dell’essere umano.
I primi europei che giunsero in America smantellarono le civiltà che c’erano ed imposero i loro rapporti di produzione con la terra affinchè, come in una religione, professassimo la fede allo sfruttamento dell’essere umano. I nuovi padroni di quelle terre vietarono la vera storia e decisero di consegnarci la versione, già fatta, che loro stessi diedero alla storia (…)
L’argomento fu semplice. Il nuovo continente era stato “scoperto e non apparteneva a nessuno”. Avrebbero quasi potuto dire di averlo trovato come un oggetto smarrito. Le civiltà di Abya Yala non erano mai esistite e le nostre idee di “progresso”, secondo le loro leggi, dovevano sottomettersi ad una civilizzazione che, naturalmente, era europea. Molto tempo prima di Fukuyama, l’ Europa decretò la fine della storia millenaria di Abya Yala e della sua storia ancestrale. Il continente “scoperto” venne considerato  “terra di nessuno”. Le popolazioni indigene non possedevano diritto alla terra, alla sovranità ed all’autodeterminazione. I fondamenti di questa attitudine risiedevano nei sistema di valori elaborati nell’Età Media attraverso la religione.

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L’ Europa cristiana rappresentava non solo un’area religiosa ma anche un ambito culturale. Le popolazioni indigene americane, comparate ai turchi, avrebbero potuto, secondo la chiesa cattolica, compromettere la cultura di segno cristiano e quel rischio deveva essere scongiurato a tutti i costi. La conquista fu, di conseguenza, una guerra di culture in cui la vittoria significava l’annichilimento completo dell’altro e la sua incondizionata sottomissione. Ciò, secondo i teologi di tale infelice ideologia, obbligava il continente conquistato a trasformarsi, si o no, in una brutta copia dell’Europa, imponendoci il disprezzo come abitudine.
(…) E’ così che comparvero il sincretismo e la cultura mariana, destinati entrambi ad occultare artificiosamente nelle chiese “il loro diritto alla resistenza ed alla ribellione”. Questa cultura della “resistenza” fece si che in molte opportunità i criollos americani, bianchi o meticci non si sentissero totalmente europei e si ribellassero contro i re e contro Dio.  Fu questa maschera a permettere alla resistenza indigena di sopravvivere. Sostituirono San Miguel con Shangó; i tuoni e i fulmini si trasformarono in Santa Barbara ed Oschún nella vergine della CARITA’ DEL COBRE o Nostra Signora della Candelaria.

(....) Non posso, però, concludere senza dire, in nome della Bolivia, Ecuador, Cuba, Nicaragua, Brasile, Argentina e Venezuela, che siamo disposti, per ora, con o senza il consenso dell’imperialismo, a costruire un progetto sociale solidale, complementare, giusto, equo, inclusivo, di pace, nel rispetto della libertà e della sovranità. Non chiederemo mai più il permesso. Lo stiamo già costruendo…e lo porteremo a termine.
Per continuare su questi passi, faremo dei nostri stati la patria di tutte le nostre culture. Saremo la sede della multiculturalità o creeremo una nuova cultura “La storia ufficiale”, ovvero quella storia tradizionale dell’America, che ha ignorato la storia dei "non bianchi", delle nostre rivoluzioni e del loro profondo e trascendente significato culturale.
Adesso basta!
L’indipendenza, vista dai nostri aborigeni, non consisteva nella mera espulsione del conquistatore. Volevano e, ancora oggi vogliono, dare voce “alla resistenza che nascosero nel sincretismo. Vogliono chiarire, non solo i conflitti odierni, ma bensì quelli che, quando arrivarono gli europei, furono aggravati dalla tiritera sulle teorie tramite le quali il colonialismo si ricostruisce, si mimetizza e si riproduce impunemente”.

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Adesso basta!
Come dice il peota brasiliano: Mi hanno rubato la mia Africa e, dopo, mi rubarono ciò che rimaneva dell’Africa nel mio cuore e nella mia anima di latinoamericano!
Adesso basta!
L’oppressore non è capace discoprire. L’oppresso scopre. Così ci dimostra un sacerdote spagnolo assassinato a El Salvador, Ignacio Ellacuría. L’oppressore non è neppure capace di scoprire se stesso. Lo disse, in una chiesa cattolica, e per condividere i rischi di questa resistenza che oggi ci consacra in questo luogo, lo trivellarono di colpi a causa di un sistema che non è capace di tollerare né gli sguardi, né le voci che si oppongono.
(....) Care amiche e cari amici, voglio terminare citando una frase di Saramago. Ho letto nel suo blog: “gli esseri umani, non siamo nient’altro che la memoria che abbiamo e la nostra unica libertà è quella dello spirito”. Forse intendeva dire che è necessario vedere il grano verde, il frutto maturo e la pietra che è stata spostata. O che è necessario riprenderei passi dei nonni, dei nostri nonni. Come nelle  traduzioni abbiamo il difficile compito di rispettare il luogo da cui tutto ebbe origine e il luogo a cui tutto si dirige, così per tradurre, dice Saramago, l’istante del silenzio anteriore è la soglia di un movimento alchemico che ha bisogno di trasformarsi in qualcos’altro, questo rappresenta l’unico modo di continuare a essere, ciò che sempre è stato.
Sembra quasi che non ci rendiamo conto che, abbandonando la nostra memoria, corriamo il rischio che questo vuoto sia colmato da memorie aliene che crediamo nostre e, così, diventiamo complici di una colonizzazione senza fine. 
Grazie cari amiche e amici, grazie a tutti voi, e grazie a José Saramago, per avermi prestato le sue farsi per chiudere questo discorso attraverso una lettura che sento sempre più intima e pura».

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