Tito Pulsinelli
Nella gran corsa ad ostacoli per arrivare alla Presidenza degli Stati Uniti, Obama e Mc Cain hanno celebrato l'ultimo rito iniziatico, calando sul tavolo qualcuna delle carte che intendono giocare. Sono gli ultimi due sopravvissuti della gran competizione plutocratica, in cui bisogna disporre di almeno 50 milioni di dollari per superare l'asticella delle fasi decisive delle eliminatorie.
La coreografia che ha fatto da cornice ad Obama è stata più fastuosa, corale ed imponente; quella che circondava Mc Cain più casereccia e improvvisata.
Nell'orizonte mentale di quest'ultimo non c'è nessuna crisi negli Stati Uniti, non c'è stata nessuna bancarotta dei grandi istituti finanziari, non è aumentata la disoccupazione.
Se il suo Paese perde punti agli occhi di tutti, lui non se n'è accorto, se c'era dormiva. Per Mc Cain stanno vincendo le guerre ma il nemico terrorista interno (ed esterno) è pervicace, diabolico, pertanto non bisogna abbassare la guardia. Sono state osannate le sue virtù di antico guerriero e la sua saggezza di ex combattente.
Persino la donna da lui prescelta come sua vice, ha fatto l'apologia della guerra, o meglio ha presentato una soprendente mistura di religiosa femmina bellicosa. Da questo lato, nulla di nuovo sotto il sole: bushismo senza Bush.
Nel discorso di Obama era costantemente presente quella parte degli Stati Uniti che è stata sacrificata da un ventennio di liberismo sfrenato, di emigrazione del sistema produtivo, e i 45 milioni di suoi concittadini che non hanno nessun tipo di assistenza sanitaria, nè privata nè pubblica.
Obama si è rivolto ai disoccupati in aumento, a quelli che stanno perdendo la casa per la speculazione sui mutui, alla classe media in affanno, a tutti quelli che sono stati penalizzati da una politica governativa che ha premiato solo petrolieri e industria degli armamenti.
Ha fatto riferimento ad una economia più produttiva in detrimento degli speculatori della Borsa, promettendo un rilancio sostanzioso del sistema educativo pubblico. Si è sbilanciato asserendo che lo Stato deve stimolare l'aumento dei posti di lavoro.
In sostanza, dà ad intendere che finanzierebbe tutto questo abbandonando l'Iraq, cioè con la riduzione delle folli spese militari.
Sulla politica internazionale Obama è più elusivo, pertanto non è dato sapere che cosa cambierà per l'America latina e i Caraibi, nel caso fosse Presidente. Sarebbe la stessa cosa? Non cambierebbe proprio nulla? Questo è quanto vanno ripetendo in molti.
In più occasioni, Obama ha detto che con l'America latina userà la carota e il bastone, cioè prima la diplomazia e poi la coercizione. Il problema è che la grave crisi ha fatto rimanere senza carota gli Stati Uniti, e i soli "aiuti" disponibili li ha puntati tutti sulla militarizzazione della Colombia. Per tutti gli altri, nulla.
Da una parte ci sono gli spazi di manovra dell'imperatore e dall'altra ci sono i vincoli e la logica di conservazione dell'impero. Il nuovo imperatore sarà capace di imporre una nuova visione e di dare una sterzata vigorosa?
C'è da dubitarlo, perchè si tratterebbe di accettare una nuova posizione degli Stati Uniti nel mondo, in cui non è più padrone ed arbitro assoluto di suoi destini.
In questo contesto di arretramento -cioè di minori privilegi globali con il dolaro e le fiches di Wall Street- la tentazione di rovesciare tutto l'impresionante potere bellico di cui dispongono sulle risorse idriche, gas-petrolio, capacità agro-alimentare e biodiversità latinoamericane sarebbe una opzione irrestibile.
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