miércoles, 16 de diciembre de 2009

COP15: Diario da Copenhagen

Luca Manes www.altreconomia.it
Copenhagen, 16 dicembre 2009
Ormai sono rimasti in pochi, pochissimi, a farsi qualche illusione che il vertice di Copenaghen possa regalare al mondo un accordo di portata epocale per combattere i cambiamenti climatici. Nelle enormi sale del Bella Center inizia a farsi largo un termine scomodo, ma forse del tutto appropriato: fallimento. Le dimissioni della presidentessa della Conferenza, il ministro dell’Ambiente danese Connie Hedegaard, non sono che l’ultimo campanello d’allarme che gli addetti ai lavori e gli analisti hanno udito fin troppo bene.

Certo, la Hedegaard ha dichiarato di aver lasciato il posto al premier Lars Rasmussen per una pura ragione procedurale, visto che tra oggi e venerdì sono attesi in Danimarca ben 115 capi di Stato e di governo e si è pensato che fosse più opportuno mettere un loro pari alla presidenza del summit.
Spiegazione tecnicamente ineccepibile e che i media locali difendono con convinzione, ma le voci che danno imminente una nuova bozza di testo finale sembrano confermare il disagio e l’incertezza dei padroni di casa, peraltro già scottati dalla fuga di notizie sul primo testo negoziale occorsa la settimana scorsa.

Padroni di casa che sono sotto ulteriore pressione dopo le accuse -mosse nei loro confronti dalla Cina e da alcuni Paesi del Sud- di agire in maniera poco trasparente e di essere fin troppo appiattiti sulle posizioni dell’Unione europea. Ma basta rileggersi le dichiarazioni del premier britannico Gordon Brown o del Segretario generale delle Nazioni Unite per avere ulteriori timori su un esito positivo dell’incontro.

Il primo, appena giunto a Copenaghen martedì sera, ha prefigurato un possibile naufragio dei negoziati, richiamando però all’impegno le sue controparti di tutto il mondo. Il secondo ha ammesso che il tanto atteso accordo di sostanza sui fondi da destinare ai Paesi poveri colpiti più duramente dai cambiamenti climatici quasi sicuramente non si raggiungerà, nonostante le promesse fatte due anni fa durante il summit di Bali.

Anche le ong meno radicali, come Oxfam, criticano con durezza lo stallo attuale, richiamando i Paesi del Nord ai loro impegni soprattutto in termini di “finanza per il clima”. Insomma, basta chiacchiere, il tempo a disposizione è poco e bisogna mettere mano al portafoglio per dare una mano a coloro che i cambiamenti climatici non li hanno provocati ma più ne subiscono le conseguenze.

Ma l’aria che si respira al Bella Center è intossicata anche da altri miasmi. Questa mattina è stato negato l’accesso al Bella Center a tutti i rappresentanti di Friends of the Earth. Nonostante ieri lo stesso Yvo de Boer, segretario generale della Convenzione Onu sui Cambiamenti climatici, avesse parlato di quote per le varie ong presenti, gli esponenti della più grande organizzazione ambientalista del mondo non sono potuti entrare nella sede del vertice. Neanche coloro in possesso del famigerato secondo badge, che in teoria avrebbe dovuto evitare qualsiasi tipo di problemi, potranno seguire “dal vivo” i lavori del summit.

Nnimmo Bassey, presidente di Friends of the Earth International, ha manifestato tutto il suo disappunto: “Siamo scioccati e del tutto sorpresi da quanto si è verificato questa mattina” ha affermato. In un secondo momento gli attivisti della ong sono riusciti a parlare con de Boer e altri esponenti delle Nazioni Unite, che però non hanno tenuto esattamente una linea comune. Si passava dai motivi di sicurezza alla mancanza di spazio nel centro congressi…

Copenhagen, 15 dicembre 2009 (LM)
Lo hanno già scritto numerosi quotidiani, riferendosi a quanto accaduto ieri, 14 dicembre. Oggi vi possiamo confermare, avendolo sperimentato sulla nostra pelle, che la COP 15 di Copenaghen non sarà ricordata come il summit meglio organizzato della storia. Anzi. Noi abbiamo atteso oltre cinque ore per poter ritirare il nostro passi – si badi bene, quello per la stampa.

Per buona parte della coda siamo stati al freddo al gelo, muovendoci molto lentamente – ma la fila riservata agli esponenti delle Ong e della società civile era ancora più lunga e statica.

A proposito di società civile, in tanti non possono più entrare, si parla di quote e di doppi badge. Secondo il Climate Justice Network il 70 per cento degli accreditati non avrà più accesso al Bella Center, la sede del summit. Una sede grande ma forse non abbastanza, se lo stesso Yvo de Boer, segretario generale della Convenzione Onu sui Cambiamenti climatici, ha dovuto ammettere che a fronte delle 15mila unità di capienza, sono stati rilasciati 45mila permessi di entrata e che per le Ong ci saranno delle ingenti limitazioni.

Per i cinquemila giornalisti ammessi le postazioni approntate dagli organizzatori non bastano, almeno a giudicare dalla situazione all’ora di pranzo di oggi. Insomma, tra una latente disorganizzazione e l’occasione presa al volo di mettere a tacere un po’ di voci “dissenzienti”, le Nazioni Unite e il governo danese hanno fatto sicuramente una figuraccia.

Nel frattempo al Klima Forum non si sono ancora spenti gli echi dei duri scontri andati in scena la notte passata nel quartiere di Christiania. Se ne parla, e parecchio, sebbene a tenere banco siano ancora i numerosi incontri e seminari in programma. Tra i più seguiti, quello del pomeriggio con Naomi Klein, durante il quale è stata “premiata” la Monsanto con l’Angry Marmaid Award per la più nefasta attività di lobbying sulla lotta ai cambiamenti climatici. La multinazionale americana del settore agricolo si è “imposta” con il 37% per cento degli oltre 10mila voti registrati sul sito di Friends of the Earth, l’organizzazione che ha lanciato l’iniziativa. Al secondo posto la corporation petrolifera anglo-olandese Shell (18%).

La Monsanto è da anni in prima fila nel promuovere le sue sementi geneticamente modificate, che la compagnia definisce “un’ottima soluzione per combattere i cambiamenti climatici”. Nella sostanza, invece, la soia biotech che ha invaso l’America Latina ha contribuito a imponenti processi di deforestazione, con il conseguente aumento delle emissioni di gas serra.

Un altro degli eventi di maggior interesse della giornata è stato il workshop su finanza e clima, co-promosso tra gli altri dalla italiana CRBM. Steve Kretzmann di Oil Change International ha riferito le cifre contenute nell’ultima bozza negoziale in merito ai fondi di adattamento per i Paesi del Sud del mondo, previsti espressamente dall’articolo 11 del Protocollo di Kyoto. In totale si parla di 10 miliardi di dollari fino al 2012.

Troppo poco e per un lasso di tempo troppo limitato, anche in considerazione che con una tassa sulle transazioni finanziarie o l’impiego dei fondi prima destinati ai sussidi per i combustibili fossili (si parla di almeno 150 miliardi di dollari) si potrebbero raggiungere quei 100 miliardi l’anno richiesti dalle realtà più povere del pianeta. Le speranze che il testo definitivo possa contenere ben altri dati non sono tante, ma ormai manca poco per sapere come andrà a finire.

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