David Lifodi danielebarbieri.wordpress.com
I casi di oligopolio mediatico in America Latina non si contano e sarebbe impossibile citarli tutti: dai media dell’opposizione venezuelana impegnati in una guerra senza quartiere per rovesciare Chávez a quelli honduregni al servizio del governo golpista ormai insediatosi da oltre un anno e mezzo a Tegucigalpa. Al tempo stesso in tutto il continente esistono interessanti esperienze di controinformazione, dal prezioso lavoro delle radio comunitarie all’elaborazione di nuove leggi nel campo della comunicazione. In questa finestra vorrei parlare del latifondo mediatico brasiliano (secondo una definizione di João Pedro Stedile, storico leader del Movimento Sem Terra) contrapposto ad un proposta per la democratizzazione dell’informazione proveniente dalla società civile uruguayana.Non è una novità che l’informazione sia totalmente subordinata alle logiche commerciali, in Italia come in America Latina. Proprio nel continente sudamericano, in particolare in Brasile, la situazione è allarmante. Nove famiglie controllano i principali mezzi di comunicazione del paese in un processo di impressionante similitudine con la concentrazione della terra nelle mani di pochifazendeiros: non soltanto la proprietà dei mezzi di comunicazione, al pari dei grandi latifondi, è nelle mani di poche persone, ma coloro che possiedono enormi appezzamenti agricoli detengono il potere al pari dei grandi imprenditori impadronitisi del sistema giornalistico di carta stampata, radio e tv brasiliane.
Aguirre Peixoto è un giovane giornalista del quotidiano bahiano A Tarde. Ha svolto uno stage in redazione prima di diventare un reporter a tutti gli effetti e solo poche settimane fa è stato licenziato per aver svelato i danni ambientali derivanti dalle grandi opere in costruzione a Salvador de Bahia. I proprietari della testata lo hanno cacciato in seguito alle lamentele degli inserzionisti pubblicitari sul quotidiano. Il colloquio deve essere andato più o meno così: “O smettete di pubblicare queste notizie oppure ritiriamo i nostri investimenti dal giornale”. Un diktat che i vertici della testata hanno prontamente accettato: impossibile opporsi agli “amichevoli” consigli delle imprese immobiliari.
In effetti Peixoto l’aveva fatta grossa denunciando le irregolarità edilizie dell’azienda immobiliare leader di settore, la Patrimonial Saraíba, il cui socio di maggioranza, Francisco Bastos, è a sua volta azionista del megaempresário Carlos Suarez, di cui la stessa Patrimonial Saraíba è una sorta di partecipata. Un po’ troppo per sperare di farla franca, nonostante la mobilitazione del Sindicato do Jornalistas Profissionais di Bahia, che ha ottenuto dai proprietari di A Tarde solo vaghe e assai confuse giustificazioni in merito al repentino licenziamento.
Non è servito nemmeno lo stato di agitazione promosso dalla redazione, che per alcuni giorni ha mandato il quotidiano in edicola senza alcuna firma ai pezzi per protesta. La forza delle imprese immobiliari è talmente forte che un altro giovane giornalista di A Tarde rischia di perdere il posto per motivazioni simili. Questo episodio è solo uno dei tanti che accadono quotidianamente in Brasile, dove i reportages su temi ambientali, la riforma agraria, le occupazioni dei movimenti contadini (Sem Terra) e urbani (Sem Teto) o, più in generale, qualsiasi inchiesta di interesse sociale, è in via di estinzione a causa dello strapotere della comunicazionemainstream impegnata a tutelare i potenti di turno, dalle lobbies industriali sostenitrici dell’agrobusiness ai grandi cartelli economici.
L’informazione libera resiste in testate indipendenti e di sinistra quali Brasil de Fato, Correio da Cidadania, solo per citare le più conosciute, insieme alle pubblicazioni più strettamente di movimento come Caros Amigos e Carta Maior, vicine ai Sem Terra. Proprio l’Mst è oggetto di una campagna di stampa fortemente denigratoria ad opera dei media commerciali e generalisti, sempre pronti a criminalizzare i movimenti sociali, ma portatori di giganteschi conflitti d’interesse al proprio interno. Ecco un episodio minimo, ma significativo di questo clima, risalente allo scorso ottobre.
Gizele Martins, borsista presso la Pontificia Universidade Católica di Rio de Janeiro, ha avuto un duro scontro verbale con la docente universitaria Marilia Martins. Il motivo scatenante del litigio ha riguardato una relazione sull’Mst e più in generale sui movimenti per il diritto all’abitare, definiti “criminali” dalla docente, che ha giudicato il lavoro della studentessa “di parte”. In realtà ad essere parziale era il giudizio della docente stessa, collaboratrice proprio con O Globo, una delle testate che da tempo ha fatto della criminalizzazione dei movimenti la sua bandiera.
O Globo fa parte di Organizações Globo, un insieme di società brasiliane predominanti non solo nelle comunicazioni, ma anche nei mercati finanziari ed immobiliari, per cui è facile capire come il recupero delle case sfitte ad opera dei Sem Teto piuttosto che la denuncia dell’edilizia speculativa sulla stampa non siano assolutamente tollerate. O Globo controlla un vero e proprio impero a livello di radio, tv e quotidiani più o meno collegati in un intreccio non sempre facile a cui poter risalire, come del resto Folha de São Paulo, altra testata assai diffusa non solo in Brasile, ma in tutta l’America Latina.
I suoi proprietari, la famiglia Frias de Oliveira, a dicembre hanno denunciato i responsabili di un piccolo blog indipendente, Falha de São Paulo, specializzato in parodie del quotidiano paulista con fotomontaggi, prime pagine fasulle e critiche volte a rilanciare una campagna per la democratizzazione dei mezzi di comunicazione.
In questo contesto la società civile può giocare un ruolo fondamentale, ed un esempio calzante proviene dall’Uruguay, dove la Coalición por una Comunicación Democrática ha redatto una carta che tutela il diritto all’informazione, al pluralismo e alla libertà d’espressione. Punto imprescindibile del manifesto, elaborato da una trentina di associazioni della società civile, riguarda un necessario limite alla concentrazione della proprietà dei mezzi di comunicazione: non devono essere di proprietà dei governi o dello stato, ma della società civile.
Per garantirne l’indipendenza è in elaborazione un “Código de ética e información a la vista del ciudadano” in grado di informare lettori, telespettatori e radioascoltatori sull’orientamento di ciascuna testata e su chi ne detiene la proprietà. La Coalición annovera tra i sedici princìpi per una corretta informazione il divieto di essere titolari di frequenze radio o tv per persone tuttora a giudizio per la violazione dei diritti umani, titolari di incarichi pubblici, esponenti delle Forze Armate. In questo modo, probabilmente, gli attivisti sociali brasiliani, i resistenti al gobierno de facto in Honduras o i militanti del Frenadeso (il Frente Nacional por la Defensa de los Derechos Economicos y Sociales) di Panama in lotta contro una serie di leggi liberticide note come la Ley Chorizo (che tra le altre cose limita i diritti sindacali fondamentali), sarebbero definiti “criminali” o “terroristi” con maggiori difficoltà.
La nuova Ley de Servicios de Comunicación, secondo la piattaforma per un’informazione realmente democratica, dovrebbe andare a sostituire quella risalente addirittura ai tempi della dittatura e dovrà inoltre ispirarsi all’articolo 13 della Convenzione Americana dei Diritti Umani, la quale prevede il diritto alla libertà di espressione e di pensiero. E ancora: parità di condizioni per media commerciali, statali e comunitari, quest’ultimi soggetti ad una forte repressione sottoforma di perquisizioni poliziesche, chiusure indiscriminate (quindici nel solo mese di Gennaio di alcuni anni fa in Brasile) e mancate concessione delle licenze di trasmissione, regalate ad emittenti amiche senza considerare il flusso di informazioni utili e di servizio per un quartiere, un villaggio o una qualsiasi città dell’America Latina.
Una regolamentazione veramente democratica dei mezzi di comunicazione impedirebbe che fossero utilizzati solo dalle classi dominanti per perseguire i propri interessi, un processo che purtroppo in Italia conosciamo fin troppo bene.
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