TP - Ecco la seconda parte del lungo racconto di F. M. Rizzotti sugli anni 60 e le periferie geografiche e sociali che strutturarano l'impalcatura d'una società che sapeva mirare a se stessa. Con fierezza, senza sdoppiamenti. Senza fughe per tangenziali comportamentali indotte con il gergo maccheronico che -da "carosello"- oggi è emigrato nelle redazioni, fino a diventare caricaturale. L'odierno vuoto identitario irride al "nazional-popolare" con sberleffi scomposti, è ignaro, greve, cinico "albertosordismo", ma senza la sua autoironia ruvida. Chi non sa da dove proviene, non può tracciare nessuna rotta consapevole. Ripete all'infinito"..in Francia farebbero così, a Berlino non si sognano di fare cosà, a New York chi lo sa".
Fausto M. Rizzotti
3
La mamma e la zia della Titti non erano le sole prostitute part-time del caseggiato. L'Augusta, per esempio, si guadagnava il pane in tessitura dove, perché i fili non si rompessero, faceva sempre un caldo tropicale. Ma non ne risentiva. Era dotata di un fisico eccezionale: spalle larghe, gambe e braccia come tronchi di platano e seni giganteschi che sembrano scolpiti in un pezzo unico. A quasi sessant'anni, d'inverno, il mattino presto, lavava i panni a mano in un bagno gelido, alle 8 era già in fabbrica; dalle 6 di sera intratteneva i suoi vecchi clienti nel letto matrimoniale - il marito in qualche osteria, perso
nei fumi dell'alcool e della vergogna. Muratore, semianalfabeta, era abbonato al Corriera della Sera che fingeva di leggere seduto sui gradini d'entrata del nostro caseggiato, per darsi le arie.
Sua figlia Angela, ragionava la signora Augusta, era indietro di cottura, troppo tonta per trovarsi un marito da sola. Aveva ripetuto la prima cinque volte ma se le chiedevi com'era la sua maestra ti diceva: "E' bella, ha i boccoli." L'Augusta le stava mettendo da
parte una dote "di sostanza" e abbastanza liquido da comprarle un appartamento. Per questo si teneva buoni i suoi tre vecchi clienti, tre bottegai che parcheggiavano senza scrupoli le loro moto di fronte al nostro caseggiato.
A sentire mio padre, lo stabile della ditta dove vivevano gli operai del cotonificio e le villette a schiera riservate ai tecnici e agli impiegati, i cui muri circondavano il nostro cortile, nascondevano un bordello. Gli bastavano due bicchieri di vino, a mio padre, per raccontare storie sapide o crudeli sulle nostre vicine: quelle che, durante il fascismo e dopo la guerra, se ne andavano in fabbrica ma anche a battere nella trattoria di fronte all'entrata del cotonificio; quella che aveva affogato il figlio nella tinozza e se l'era cavata andando a letto con un carabiniere; l'altra che al marito preferiva i ferrovieri della Nord e era spesso in luna di miele. Secondo lui, la mancanza di sindacati, durante il fascismo, aveva scatenato gli istinti più bassi di uomini e donne e le conseguenze erano ancora evidenti, sei anni dopo la fine della guerra.
Le mogli dei tecnici e degli impiegati non si concedevano per soldi o non solo: quello che le spingeva tra le braccia di direttori e capi reparto era la speranza che i loro mariti ottenessero l'avanzamento. E le arie che si davano, "le troie!" Le operaie invece non avevano segreti: da maggio a ottobre trascorrevano le loro serate sui gradini del caseggiato fino all'ora di andarsene a letto. L'argomento delle loro conversazioni era immancabilmente il sesso, e ne ridevano fino a tremare tutte, tette pance e sederi, fino a scoppiare. Che le magre, le isteriche, le bigotte sfregassero le loro padelle, rammedassero le loro calzette, crepassero di invidia.
Le loro risate mi mettevano allegria. A otto anni, io ero affascinato dalla superfici immense e tremolanti di quelle signore, specialmente quella della signora Ginetta, sempre la prima ad annunciare, congestionata: "Donne, donne, mi sono pisciata sotto!" Era sposata con un uomo piccolo e grazioso che lavorava nel reparto più disprezzato del cotonificio; lì non c'era avanzamento possibile e le paghe erano ancora più basse. Lui era responsabile delle calandre, un lavoro che richiedeva pazienza e precisione: doveva caricare le pezze sui cilindri e farle passare nelle vasche degli acidi.
Lo faceva da anni e mai uno sbaglio; le sue pezze si srotolavano senza fare una grinza da un cilindro e si avvolgevano perfettamente sull'altro. Se poi rimaneva una macchia, interveniva mia mamma, a mano. Non fumava e non beveva, non giocava a morra, non andava all'osteria, raramente apriva bocca. Non aveva neanche un nome: per i colleghi e per la moglie era "Ul piscinin, il piccoletto". Calmo, serio, sereno, solo la vista di sua figlia, la bellissima Erminia, lo illuminava. Lei lo chiamava papà.
Erminia aveva tredici anni e ne dimostrava diciotto. I suoi capelli biondi, ondulati, la bocca piena e sinuosa, i seni prorompenti, era una bomba sessuale e lo sapeva. Non stava con noi in cortile, come le altre ragazzine, preferiva la strada dove i quattro o cinque giovanotti ricchi del paese passavano apposta per lei. Se diventavano troppo sfrontati sua mamma la chiamava, la faceva sedere tra sue gambe, l'avvolgeva nei suoi seni enormi, le sussurrava: "Tu non farai mai la fame, non dovrai lavorare come un asnìn."
Lei arrossiva, le donne scoppiavano a ridere, decantavano la sua bellezza, la ricchezza che l'aspettava e il fascino dei suoi corteggiatori. Erminia allora correva in casa e là, davanti allo specchio del guardaroba, apriva la camicetta e si ammirava. Era quello che aspettavamo: a turno infilavamo la testa tra le le persiane appena accostate della camera da letto che divideva con i suoi genitori, per spiarla.
Un pomeriggio di agosto, il cotonificio chiuso per ferie, noi stavamo giocando in strada perchè la signora Ginetta ci aveva scacciati dal cortile: "Dorme il mio Piscinin, andate a giocare da un'altra parte." Forse suo marito non era neanche in casa, chi lo sa? Di sicuro la signora Ginetta non voleva che le rompessimo le rose che aveva piantato sotto la finestra della sua camera da letto, in una piccola aiuola delimitata da scheggie di mattone.
Noi bambini giocavamo a pallone, le bambine al mondo. Improvvisamente è passata un'auto sportiva e si è fermata vicino alle operaie sedute sui gradini. E' sceso un giovanotto che nascondeva la sua statura da nanetto con un paio di scarpe ortopediche e un ciuffo che sembrava un toupé. Le donne lo hanno salutato come un vecchio amico: "O Guàn, Giovanni, hai già chiuso il negozio per le ferie? Eh, tanto te ce n'hai di dané."
La signora Ginetta lo ha fatto sedere tra sé e l'Erminia, e, a forza di pacche sulle spalle e sulle coscette magre magre lo spingeva addosso alla figlia. E rideva, accompagnata dalle altre donne. Per una settimana intera il piccolo rivenditore di tessuti ha passato il pomeriggio sotto l'ascella sudata della Ginetta, incollato ai fianchi bollenti di Erminia i cui vestiti diventavano ogni giorno più scollati e aderenti. Lui, quasi, non parlava, Erminia guardava con occhi sognanti la sua macchina sportiva.
Due giorni prima della riapertura del cotonificio Giovanni non si è fatto vedere. "Avrà aperto il negozio," hanno pensato le comari. Stanca di aspettare il suo corteggiatore, Erminia si era messa a giocare al mondo con le bambine, lusingate dalla sua presenza, lei nervosa e scostante. Le abbiamo offerto la nostra bevanda estiva, un liquido marrone e schiumoso che ottenevamo agitando qualche pezzetto di liquirizia in una bottiglia d'acqua; si chiamava "consolina", era calda e amara. Non l'ha voluta. Alle 4, sotto un sole feroce, è passato il Broglia. A piedi nudi, in pantalocini corti e canottiera, spingeva una carriola vuota gridando: "Saponetta di Corea, saponette di Corea." Di notte percorreva le strade del paese, e scriveva sui muri con un grosso pennello: "Uccido e mi uccido!" Dormiva nella spazzatura.
La guerra di Corea era appena cominciata e nessuno sapeva che cosa volesse dire il grido che usciva da quella testa calva, da quella bocca sdentata, da quella faccia contorta. Lasciava dietro di sè un vento freddo. Le vecchie signore l'hanno guardato in silenzio fino a quando ha svoltato l'angolo, Erminia si è spaventata e è rientrata in casa. Io ho fatto l'occhiolino a Vincenzo, che aveva due anni più di me e praticava già il culturismo. Ci siamo allontanati in silenzio, siamo tornati in cortile e ci siamo avvicinati alle rose della signora Ginetta. Vincenzo mi ha sollevato, io mi sono aggrappato al davanzale della finestra e ho infilato la testa sotto le persiane.
Ho sentito Erminia dire a suo padre, che era steso sul letto matrimoniale: "E' passato il Broglia. Mi fa paura, quello lì!" "Non è venuto, eh?" le ha chiesto lui, alludendo al suo innamorato. Erminia è scoppiata a piangere. "Vieni qui, ratin, topolino, vieni dal tuo papà." Lei si è avvicinata al letto. "Sei l'unica che mi vuol bene," ha detto il Piscinin con una voce strana, l'ha presa per un braccio, l'ha tirata verso di sè e le ha toccato le tette. Qui Vincenzo ha mollato la presa e siamo caduti sulle rose della signora Ginetta.
4.
La signora Lina, quando vedeva passare il Broglia, si faceva il segno della croce. "O Signore! - sospirava, - pensare che siamo parenti con quella bestia lì! Alla lontana, però, per fortuna." Poi riprendeva in mano il centrino e rispiegava a sua figlia diciottenne i segreti del punto croce. L'aveva educata così bene, la Piera! Aveva due mani d'oro, ma il suo fidanzato, il figlio del vicesindaco, sempre lì a far domande al parroco sulla famiglia della Piera, sul papà ammalato, su quel Broglia che portava la spazzatura in casa. "Certo - rimuginava la signora Lina - fa bene a informarsi, la sua è una famiglia importante e poi lui è ragioniere." E ripassava nella sua mente organizzata la dote della figlia, già pronta: le lenzuola, i copricuscini e i fazzoletti con le iniziali ricamate in rosso e che ricami!, fatti da lei, semezzi, e gli asciugamani e i copriletti e le vestaglie che se a suo marito non veniva il mal di cuore chissà che dote, il doppio! ... e adesso era lì, invalido, sul pianerottolo, a leggere la Gazzetta dello Sport, gliela comperava lei la Gazzetta, tutti i lunedì!
"No, la Piera non è una bellezza - pensava - come l'Erminia, ma la bellezza basta mica; la mia è brava, educata, lavoratrice, va sempre in chiesa e poi è sana, non come il mio Luigi... che è tutta colpa della guerra, speriamo che non sia un'agonia lunga." Li andava a trovare gli ammalati lei. "Quella beghina lì - diceva sempre mio papà - è specializzata in agonie comparate. Se mi capita qualcosa non la voglio vedere in casa, eh?, neanche un secondo!" e bestemmiava. Secondo la signora Lina il Broglia, che andava in giro a spaventare la gente... i suoi parenti stretti, con tutte le conoscenze che avevano, dovevano averlo già messo in manicomio da un pezzo. Suo marito Luigi aveva fatto la guerra, aveva torturato i partigiani jugoslavi, ma non ne parlava mai; parlava solo di Fausto Coppi.
Al piano di sopra, dietro le persiane chiuse della sua stanza, il signor Umberto Colombo non riusciva a dormire. Il lavoro era ricominciato e lui faceva il turno di notte. Le risa di mia sorella e della sua amica Angelina lo tenevano sveglio. Le due bambine stavano spogliandosi per entrare nella tinozza che dopo il pranzo avevano riempito d'acqua e avevano messo a scaldare al sole. Mia sorella mi ha visto correre per strada e mi ha chiamato: "La mamma ha detto che devi lavarti anche te." Io le ho fatto segno di aspettare e, con un bastone nascosto dietro la schiena, mi sono avvicinato al cancello della villa che stava dall'altra parte della strada, proprio di fronte al nostro caseggiato. Ci abitava il direttore della filatura. Appena ci ha visti, il bulldog del direttore si è avvicinato al cancello e si è messo a abbaiare.
Lo odiavo perché la figlia del direttore, una volta che allo spaccio del cotonificio non aveva trovato i biscotti savoiardi si era lamentata: "Ma questi operai mangiano anche i savoiardi! E adesso cosa gli dò al mio cane?" Ho infilato il bastone tra le sbarre del cancello e quel cretino di un bulldog l'ha morso subito. Era quello che aspettavo: gli ho spinto il bastone in bocca con tutta la forza, lui ha fatto un salto indietro e è scappato che mugolava. La chiamavamo l'operazione alle tonsille. Ce le toglievano anche a noi ma dopo ci davano il gelato.
La signora Passerini si era preparata un panino al prosciutto e lo mangiava alla finestra. Stava così tanto alla finestra che aveva i calli ai gomiti. Ha sentito muoversi il signor Pasinetti, che abitava sotto di lei, un tirchio che era riuscito a far prendere la tubercolosi al figlio maggiore. "Io - pensava - non mi sono mai data gli schiaffi alla bocca, neanche in tempo di guerra." Mio papà sapeva come era riuscita a non farsi mancare il companatico, con quel marito scemo che si ritrovava: un servo, che faceva il turno di notte in tessitura e di giorno le pulizie in casa del suo direttore.
Il signor Pasinetti risparmiava per farsi la villa; invece la signora Passerini, quando comprava un pollo, andava avanti e indietro per il corridoio, dal suo appartamento al suo gabinetto, che stava proprio di fronte alla porta di casa nostra, agitando il pollo e mio papà disgustato: "Sembra il romanzo di Zola," che lui aveva letto in francese.
La signora Augusta era rientrata dalla fabbrica, aveva chiuso le persiane della stanza da letto, si era tolta la camicetta, la canottiera e era rimasta in reggipetto. Una volta, quando mio papà non era ancora sposato, lei gli aveva confidato: "Sono molto sensibile nelle tette." La signora Passerini ha visto arrivare il motom del vecchio cliente della signora Augusta e ha guardato la sveglia per ricordarsi l'ora precisa. Il signore del motom è entrato nella stanza della signora Augusta, eccitato dall'odore di borotalco Felce Azzurra e di scarpe puzzolenti che lei metteva sul davanzale a prendere aria.
"Hai sempre voglia di farlo andare," gli ha detto lei, contenta. "Vieni qui che ti uso," le ha risposto lui. La Eva è uscita dalla villetta degli impiegati dove abitava con i suoi genitori e si è incamminata strisciando lungo il muro di cinta, come al solito. Si era appena rimessa da un attacco di brutto male. Dopo gli attacchi il mondo le sembrava magnifico, tutto: il sole, il crescione che cresceva lungo i muri, le rose della signora Ginetta. Incontrata Erminia, che aveva la sua età, le ha detto: "Come sei bella, Erminia!" Lei è scappata via piangendo, poi ha quasi vomitato.
Il signor Umberto, turbato dalle risa delle bambine, si è alzato, è andato alla finestra e ha sbirciato tra le persiane. Sotto di lui, in corridoio, le due bambine giocavano nella tinozza, in mutande. Io stavo salendo di corsa i tre piani di scale. Al secondo piano il marito della signora Lina, che stava leggendo la Gazzetta, mi ha salutato: "Ciao, dove vai così di corsa?" "A fare il bagno." "Spetta, che ti faccio vedere che foto del Coppi che c'è sulla Gazzetta. Quest'anno vince il campionato del mondo." Ha tirato un sospiro da ammalato: "Sicuro come l'oro." "Viva Fausto Coppi," gli ho risposto, e sono salito di corsa. Ho fatto appena in tempo a vedere il signor Umberto con il coso grosso così che chiudeva le persiane.
Quella sera, mio papà, mia sorella grande e io abbiamo suonato il campanello dei Colombo. Ci ha aperto la moglie, una donna magrissima, che non si vedeva mai in giro. Sembrava una vecchietta di 70 anni e era molto spaventata. Ci siamo seduti attorno al tavolo della cucina. Sul comò per soprammobili c'erano due fiaschetti di Chianti. Il signor Umberto ha detto che le bambine lo svegliavano, che lui così non riusciva a dormire, che faceva i turni di notte. Parlava come uno che sta male. Mio papà gli ha spiegato che, se lo licenziavano, perdeva anche l'appartamento.
continua
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