domingo, 11 de septiembre de 2011

Appunti scritti con il gesso (3)

foto Aldo Bonasia

Fausto M. Rizzotti
Ogni volta che mi vedeva correre a scuola la signora Augusta mi raccomandava: "Studìa, naan, ka l'é paan." Verso metà ottobre, che le lezioni erano appena cominciate, mio papà è venuto a parlare con la mia nuova maestra e le ha detto: "Lei a mio figlio le mani addosso non le mette, e sa anche perché." Poi non è riuscito a trattenersi dalle sue famose citazioni e ha aggiunto: "A buon intenditor... poche parole." Però non ha tirato in ballo nè Dante né Manzoni come faceva di solito durante i pasti. Così la mia maestra Stanga (che vuole dire "palo", ma anche "alta e magra" e nel suo caso di sicuro voleva dire alta e magra perchè era proprio così) ha smesso di picchiare i bambini e di chiuderli nell'armadio a muro; gridava un po' quando correvamo in classe ma lì aveva ragione: la scuola era in un edificio
 mezzo diroccato e nel pavimento della nostra classe c'era un buco che si vedeva di sotto. Ci ha portato tutti fino in quinta senza bocciare nessuno e ci ha voluto un bene che "metà bastava". Anche da vecchia raccontava sempre che non le era più capitata una classe come la nostra. Intanto eravamo tutti maschi e a lei piacevano solo i maschi. Secondo, eravamo nati sotto i bombardamenti e forse per quello eravamo matti ma intelligentissimi. Le sue due figlie sono gelose di noi ancora adesso, anzi, ci odiano.


La prima e ultima volta che mio papà ha parlato con la mia maestra lei indossava una camicia di seta. In quegli anni tanta gente in paese aveva la camicia di seta. Veniva dai paracadute di due americani che si erano salvati cadendo in un cascinale. Mio papà, che faceva parte del Comitato di Liberazione Nazionale, aveva preso la sua Beretta e era andato a nasconderli.

La mia maestra stava coi fascisti e il 25 aprile, quando c'era stato da rapare le fasciste, mio papà aveva detto a quelli del Comitato: "Questa no, è una povera scema," e le aveva risparmiato l'umiliazione. Fosse stato per lui non ne rapavano neanche una, tanto erano tutte sceme. Però. C'era in classe con me il figlio del capo zona del C.N.L. che dopo la guerra viveva con la famiglia in un abbaino, tanto erano poveri.
Questo mio compagno di scuola era coraggioso come suo papà, ma mica tanto intelligente. La maestra Stanga si divertiva a coglierlo in castagna. Io una volta ho preso le sue difese, la maestra mi ha ascoltato per un po' poi ha detto: "Da grande dovresti fare l'avvocato," e ha imbastito una specie di processo, con i giudici, l'accusa e la difesa - io - e il pubblico - i miei compagni di classe. Abbiamo passato un'ora a discutere, il mio compagno è stato assolto e per qualche giorno siamo stati amici. Mi ha portato a vedere l'abbaino, la sua collezione di figurine, mi ha confidato che da grande voleva fare il pompiere ma io riuscivo a legare soltanto con quelli del mio cortile e è finita lì.

6.
La domenica mia mamma non faceva il suo solito pisolino dopo mangiato. Quando andava al lavoro, invece, appena finito di pranzare, che era già l'una meno venti, si sedeva su una sedia, si faceva dare un cuscino dell'ottomana, lo metteva sopra lo schienale di un'altra sedia, ci apppoggiava le braccia, la testa e si assopiva così, per stare alta - aveva "l'abbassamento di stomaco". Noi, cinque minuti prima dell'una, che mio papà era già partito per il lavoro, la svegliavamo, lei faceva un sospirone, sembrava disorientata, si asciugava il filo di bava sotto il mento, si dava una pettinata e correva in fabbrica.

Se timbrava in ritardo mio papà veniva subito a saperlo - lui faceva il fattorino e nel suo ufficio c'erano le impiegate che controllavano i cartelllini e davano le multe - e se mio papà veniva a saperlo si arrabbiava. La domenica, appena finito di sparecchiare, mia mamma svuotava il borsellino, i soldi del resto da una parte, gli scarabocchi degli ambulanti dall'altra e si metteva a fare i conti; le andava via un'ora buona perché era portata per l'aritmetica ma aveva solo la prima. Se le mancava una lira o le "cresceva", diventava matta, ricominciava tutto da capo.

Adesso che aveva bene in testa i prezzi poteva organizzare il menù della settimana. La pasta il riso le uova il formaggio, il vino, il lesso per la domenica li comprava allo spaccio del cotonificio dove magari la roba non era di prima scelta ma costava un po' meno. Il pane andavo io a comprarlo, con il sacchetto di tela, un chilo e mezzo di michette al giorno e certe volte non bastava perché non si mangiava niente senza pane, anche la minestra, anche il dolce, che poi era pane puciato nel vino e zucchero. C'era addirittura un verbo apposta, "compesare", che voleva dire "mangiare col pane". Chi non compesava... o era ricco o era "un disgraziato che non compesava".

Mia mamma era una grande esperta in merceologia, ecologia (specialità riciclaggio), finanza (ramo risparmio). Siccome per mangiare si spendeva il 60 per cento della paga di papà - quella di mia mamma era ancora più ridicola - quei menù settimanali erano la base per "mandare avanti la baracca", per "avanzare" qualcosa tutti i mesi, per i vestiti, la luce e il gas, la scuola, la dote delle figlie, il "non-si-sa-mai". Per fortuna abitavamo nelle case della ditta e l'affitto era quasi simbolico. La scienza combinatoria che mia mamma utilizzava per vivere mio papà la esprimeva giocando a carte e quando tornava dal sacro C.R.A.L. (il Centro Ricreazione Assistenza Lavoratori, il bar del cotonificio, dove tutto costava un po' di meno) si vantava dei suoi geniali sparigli, dell'abilità con cui segnalava le briscole.

Era in grado di ricordare decine di partite, mano per mano, carta per carta, e di commentarle scientificamente. Mia mamma conosceva solo rubamazzetto, un gioco da bambini, e non riusciva a cogliere la finezze di quelle manovre, si credeva inferiore. Comunque si faceva consegnare dal marito la paga intera e gli lasciava una mancetta, con preghiera di "starci dentro", anzi l'ordine. Poi nascondeva i soldi in qualche posto segreto, ma così bene che io e mia sorella più piccola, che per giocare abbiamo frugato in tutti i buchi di casa, non siamo mai riusciti a trovarli. Invece il cioccolato Talmone, le mentine e i golia li nascondeva sempre nel buffet, dietro il servizio di piatti o nelle tazze del caffelatte, perché li trovassimo.

7.

E la guerra di Corea "seguiva il suo decorso", come una malattia qualsiasi. Due anni dopo ci sarebbero stati un milione e mezzo di coreani in meno, per adesso la domanda di tessuti era in aumento, la cassa integrazione era finita. Mia mamma aveva ripreso a lavorare in candeggio a tempo pieno, invece di due settimane al mese e era molto contenta. Un continuo fischiare di sirene - per allertare chi faceva la giornata e chi faceva i turni - un andirivieni di operai che in bicicletta, a piedi, in motorino, in autobus, in treno, correvano nelle fabbriche tessili, chimiche, metalmeccaniche, nelle fonderie. Nei campi, che stavano scomparendo, si costruivano le prime case popolari. Anche i pochi contadini rimasti mandavano i figli in fabbrica.

Mio papà "accresceva continuamente la conoscenza della linea del partito" leggendo tutti i giorni l'Unità e inveiva contro il generale Mc Arthur che voleva usare le atomiche, ma andava poco in sezione perchè, in fondo, non era un politico e i compromessi, il tran tran, le piccole beghe non lo appassionavano. Frequentava assiduamente il Cral; qualche volta, la domenica pomeriggio andavo a trovarlo per farmi comprare una gazzosa.
Dovevo cercarlo a lungo perchè il salone dove gli uomini giocavano a carte era immenso e i giocatori una marea. In questo senso mio papà era "attivo nelle organizzazioni di massa" e la sua "condotta onesta e leale" avrà contribuito al successo "dell'opera di proselitismo" o forse no. Del resto che cosa poteva farci lui se in un paese di grandi fabbriche, con una decina soltanto tra commercianti e dettaglianti, i contadini quasi scomparsi, un paese al 70% - almeno - proletario, quattro preti, di cui uno proprietario di terreni e di immobili, avevano più influenza di Stalin che aveva costruito il paradiso in terra?

Il comune stava facendo scavare una circonvallazione; uno dei figli del mezzadro che coltivava i campi della zona, un pluriripetente che la maestra Stanga aveva deciso di portarsi fino in quinta, giocando con una specie di slitta dove un tempo suo padre andava a zappare, ha scoperchiato una tomba antica e la maestra l'ha lodato di fronte alla classe. Di chi fosse la tomba non ce l'hanno saputo dire. Un cavaliere, forse, ma di che periodo? Un tedesco al seguito del Barbarossa, accoppato da Alberto da Giusano personalmente, durante la battaglia di Legnano, un longobardo sbudellato da un franco, un celto infilzato da un romano o un ligure massacrato da un celto?

Perché nel quadrato tra Legnano, Gallarate, l'Olona e il Ticino, dove "sorgeva il nostro ridente paese" pare proprio che vivessero gli ultimi liguri sopravvissuti all'invasione dei celti, nel senso che quella brughiera perfino ai celti gli faceva schifo. E i liguri sopravvissuti dovevano essere proprio selvatici o magari impestati se i romani, i longobardi, i franchi, i duchi di Milano pur di non passare dalle nostre parti facevano giri dell'oca. In seguito gli spagnoli hanno sbolognato lì un po' di marrani - tra cui una suora mistica. Al paese avevano il loro quartiere, la contrada degli ebrei, dove certi tipetti mori e secchi si dedicavano ai lavori specializzati come montare caldaie e riparare motori oppure erano impiegati contabili.

Erano tutti cattolici ferventi e democristiani di ferro. L'altra testa buona del paese, oltre a mia sorella, veniva da lì e studiava da medico. (E così si spiega perché questo testo suona strano: è stato scritto nel rispetto delle regole grammaticali e sintattiche del dialetto basso varesotto, che risentono delle lingue semitiche che vanno pazze per gli anacoluti. Le regole fonetiche, invece, sono quelle dell'antico ligure - X-V secolo a.C. - quindi tutte le vocali, indistintamente, andrebbero lette con la glottide ben chiusa così da ottenere soltanto suoni cupi; le eu e le u andrebbero pronunciate alla francese; nel caso di parole trisillabiche o oltre, l'ultima sillaba bisognerebbe eliderla o condensarla in un grugnito.)

E la tbc c'era ancora, eccome!, favorita dalla dieta di minestrine e caffelatte che scandivano i pasti e le cene, e dall'ossessione del risparmio. Così il figlio maggiore dell'usuraio Pasinetti era andato tubercolo e adesso stava in sanatorio. Ma quelli non compravano nemmeno il carbone per l'inverno, stavano in casa col paltò e a turno infilavano i piedi nel forno della stufa alimentata a stecchetti. Il padre a quarant'anni era già gobbo, solo la signora, che faceva la casalinga, aveva un bel colorito e il suo bel strato di grasso, la dieta la faceva fare agli uomini.

Un pomeriggio di inizio novembre la signora Pasinetti ha incontrato mia sorella maggiore che saliva le scale pallida come uno straccio. Presa da pietà le ha chiesto: "Che cos'hai, bela tuseta, ti senti ben no?" Mia sorella ha fatto di sì con la testa - era tornata dal lavoro perché aveva vomitato il risotto della mensa e il riso-e-latte della sera prima - allora la signora Pasinetti, in un impeto di generosità le ha detto: "Sai cos'è che devi fare cosa? Vai a casa, ti fai una camamela bella calda e ti metti a letto, come una brava stèla."

L'estate di San Martino faceva così caldo che noi bambini, dopo cena, siamo scesi ancora in cortile a giocare a nasconderci e la signora Passerini poteva starsene alla finestra a controllare il va e vieni. Una sera ha notato una donna con un foularino che entrava nella scala della signora Ginetta. Poteva essere la levatrice. Ha guardato la sveglia per vedere di preciso che ora era. Sotto di lei la signora Pasinetti diceva al figlio minore, che era già guarito dalla tubercolosi: "Ma il papà possibile che è ancora fuori, che deve venire un signore? Va' a chiamarlo." Poco dopo la signora Passerini ha visto il ragazzino correre verso la cappella della Madonna di Lourdes e ha detto a suo marito: "Chissà dove va quest'ora?" e lui ha borbottato: "Che cosa t'interessa a te cosa?"

In cortile con noi c'era anche la Eva, che aveva quasi vent'anni e si era appena ripresa da un attacco di brutto male, e la Concetta, che a undici anni era già sviluppata. I ragazzini volevano nascondersi con lei in qualche angolo per toccarla, ma sua mamma l'ha chiamata dal ballatoio: "Tinaaa..." Lei zitta. "Tiiii-naaa," ha urlato sua mamma, più forte. Era sempre arrabbiata. Lei faceva finta di niente. "Tiii-na, ma-ledetta cristi-aaa-na..." Era il segnale che doveva proprio rientrare. Suo fratello Vincenzo, anche se era più piccolo, le ha ordinato: "Obbedisci a mamma, se no chiama anche a me."

La signora Passerini ha visto rientrare il signor Pasinetti con suo figlio; camminavano in fretta e avevano una borsa piena di verze. "E' andato a rubare le verze, quello lì! - ha detto al marito - Che poi non ci sono neanche state tre brinate, la casseula non sa ancora di niente." "O te, o te! Chiudi che fa freddo," le ha risposto lui. Dietro i due camminava un uomo con un cappello abbassato sulla faccia, che la signora Passerini gli sembrava di averlo visto ma non riusciva a ricordarsi chi era e ormai erano buio. "Sicuro come l'oro che va a chiedere i soldi in prestito..."

Erminia aspettava in camera da letto. Da lì sentiva sua mamma parlare con l'ostetrica in cucina. Il figlio dell'ostetrica era in classe con me, era un bambino bellissimo e molto elegante, era il cocco della maestra. Sua mamma era sempre vestita bene, cantava nel coro della chiesa; era, come diceva mio papà che aveva letto Stecchetti, "un ranocchia d'acquasantiera." Ma una volta che credeva che non lo sentissi aveva detto a mia mamma: "Quella là, tanto bigotta e poi fa gli aborti, che in questo schifo di paese sono fuori legge, non come nel comunismo che sono gratis e te li fanno i dottori, non le mammane!"

Prima che finisse la conta noi ci siamo nascosti in quattro in un sottoscala, il Renzo, il Vincenzo la Eva e io. L'Alberto, che doveva trovarci, ci era passato vicino tre volte ma poi ritornava verso la base, che noi chiamavamo casa, così non potevamo "saltar fuori" e batterlo sulla corsa. La quarta volta ci ha chiamati, sottovoce: "Ohé, venite, c'è l'Erminia che piange." Ci siamo avvicinati alla finestra che dava sulla stanza da letto della ragazza e della sua famiglia. Non si sentiva niente, Alberto ha ripreso a contare, solo la Eva è rimasta vicino alla porta di Erminia che dava sul cortile.

Dalla finestra dei Pasinetti saliva un odore di minestra. La signora Passerini ha pensato di chiudere anche le persiane e si è seduta in cucina. Lei l'odore di minestra non lo sopportava, le ricordava la guerra. E poi aveva già visto uscire il tizio, quello che era andato a chiedere i soldi all'usuraio ma non l'aveva riconosciuto. "Dev'essere un foresto," aveva ripetuto e il marito non le aveva risposto neanche quella volta. La signora Ada, che viveva sola nel nostro caseggiato, ma su un'altra scala, in un appartamento di una stanza, si è fermata a parlare con me. "Sei ancora in giro, ninin?" mi ha chiesto. E come al solito mi ha raccontato che i suoi parenti, in Argentina, mangiavano bistecche di un chilo, buonissime, a mezzogiorno e a sera, mica come qui da noi, però là in Argentina era umido e a lei erano venuti i reumi e io, se nascevo in Argentina, diventavo più robusto. Ero nascosto sotto una fontanella e facevo di sì con la testa per non farmi scoprire dall'Alberto.

Quando se n'è andata sono corso alla base ma non c'era nessuno, erano già rientrati tutti. Dietro la porta di uno dei cortiletti che davano sul cortile grande, c'era la Eva che diceva: "Mamma, dovevi sentire la Ginetta come gridava! Gli diceva all'Erminia: che cosa hai paura di cosa, scema, io ne ho fatti trenta. E gli ha detto: se gridi ti metto un cuscino in faccia. Non fa male, non si sente niente." La mamma della Eva a bassa voce: "Parla piano, Eva." "Però l'Erminia ha gridato lo stesso, ha gridato tanto. Poveretta! Ma che cosa erano dietro a fare?" "Cos'è che vuoi capire te? Sono cose di donne. Va' dentro in casa." La Eva si è messa a piangere e sono venuti i lucciconi anche a me.

Allora, per non far vedere a mia mamma che piangevo, ho fatto un giretto. Vicino al Sempione c'era un ubriaco aggrappato alla pesa del dazio, dall'altra parte dello stradone ce n'era un altro che gli ha gridato: "Ohe, Pierìn, cuma la sta la Bambula Rota, te la ciùli sempar?" "Eh - gli ha risposto l'altro, che quando gli chiedevano dei suoi rapporti sessuali con la figlia diventava rancoroso, - i àlter han mangià i nuus e a mi me vanzà i vuus, gli altri han mangiato le noci e a me son rimaste le voci" e è scivolato sul suo vomito.
continua

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