jueves, 17 de noviembre de 2011

Il boom (2/4)

Ora siamo al crack ma c'é stato anche il boom ed é li che ci conduce la penna onirica di Martino F Rizzotti. La sua narrazione riporta alla superficie della mostra memoria un passato che é identitá comune e confluenza di intenti. C'era la lotta di classe ma si edifico' praticamente tutto, un Paese ed un modello di convivenza sociale. Quel che il nuovo governo di Goldman Sachs si appresta a liquidare definitivamente, consegnando tutto quel che ne rimane a mani rapaci e straniere, che faranno tombola piena. Cosa che non ottennero nemmeno con - e dopo- lo sbarco di Anzio. Le elites globaliste ci vogliono vassalli, smemorati e privi di volontá.
Martino F. Rizzotti
Mia mamma quando mi vedeva giù di birlo (triste e scoraggiato), quando notava che leggevo addirittura le poesie si preoccupava. Ma appena sono entrato alla Montecatini è salita al settimo cielo, tutta un progetto: con la mia paga potevamo comprare questo e quello, magari riuscivamo persino a riparare la casa dei suoi genitori alla Collina, che un vicino ci teneva i conigli - ancora qualche anno e la prendeva per usucapione. Io, in teoria, avrei dovuto essere orgogliosissimo del mio reparto, il laboratorio "prove e colori", la crème della crème. Il mio
 capo era un ragazzotto toscano fresco di studi e pieno di entusiasmo; soprattutto, non si era ancora incattivito. A parte i lavori a rischio, faceva tutto lui, io ero il suo unico dipendente. Sopra di noi c'era un altro capo, un tipo anziano, indolente, roseo come un salumiere; stava sempre chiuso nel suo stanzino, fingeva di consultare documenti e passava il tempo a pettinarsi la bianca chioma. Ogni tanto dava al perito tintore Entella un pezzetto di plastica colorata con l'aria di passargli un reperto della scientifica. Allora l'Entella di concentrava, trafficava coi vasetti dei colori poi veniva da me e diceva: "Proviamo questa mescola."



Io non sapevo niente di colori e non mi immischiavo - un atteggiamento che l'Entella apprezzava molto - eseguivo e basta. Lui, per carattere, era un ottimista, ma al trentesimo tentativo fallito, gli saltavano i nervi. L’altro, il biancochiomato, restava impassibile. "Tranquillo, possiamo farcela," lo rincuorava. Allora Entella usciva dal capannone, fissava il sole attraverso il pezzetto di plastica per scoprire dov'era il busillis poi tornava alla carica.


A me, quando il perito Entella mi mandava alla calandra, veniva una fifa boia. D'estate, nella "crème della crème", c'erano 40 gradi minimo e capitava di addormentarsi in piedi. La calandra, poi, manda caldo di suo e emette un ronzio ipnotico. E' fatta di due cilindri pesanti, che girano in senso opposto, quasi sfregandosi. Io la usavo per colorare la plastica: mettevo in moto, aspettavo che i cilindri fossero bollenti, ci versavo sopra delle bustine di poliuretano, o qualcosa del genere, e aggiungevo lentamente i colori che mi passava l'Entella poi, con mano guantata, mescolavo il tutto a forza di carezze, fino ad ottenere una sfoglia. Il sistema di sicurezza della calandra consisteva in una leva messa sopra i cilindri che, abbassata, li faceva ruotare in senso inverso. Se la manovra era eseguita con sufficientemente rapidità, ci rimettevi solo la mano ma il braccio rimaneva integro. Per non addormentarmi, mentre accarezzavo i miei cilindri facevo fantasie erotiche.


La trafila, invece, in sè e per sè non mi dispiaceva. Da una parte ha un imbuto dove si versa il materiale, dall'altra la testata, una specie di cappella smontabile. Gli adolescenti vedono sesso dappertutto, anche in un tubo riscaldato con dentro una vite. Tu versi dadini di plastica nell'imbuto e, a seconda della testate che metti, ti escono spaghetti, linguine, lasagne calde. Perchè non ti esploda in faccia il tubo è bucherellato e qui comincia il casino: se la pompa aspirante aderisce perfettamente ai buchi puoi sperare di cavartela, in caso contrario aspiri i gas della plastica. Naturalmente la mia era difettosa. Ma le prime ore del mattino non erano male: mi davano quattro o cinque sacchi di plastica di varie forme da ridurre in dadini. Allora andavo in una sala isolata e versavo un po' alla volta il contenuto di miei sacchi in due mulini che facevano un rumore infernale. Quando entravano in risonanza il casino diventava spaziale. Era un lavoro cretino senza mezzi termini, onestamente, chiaramente cretino, che mi permetteva di fantasticare.


Nel nostro reparto si faceva anche l'analisi della resistenza dei materiali: inserivi un pezzetto di plastica di tre centimenti per tre in un macchinone, schiacciavi un bottone, il macchinario diventava epilettico poi si sentiva un toc e ne uscivano quattro pezzetti più piccoli. Lo manovrava un trentino che, 46 ore la settimana, non faceva altro. Aveva un'aria ilare che mi stupiva. Doveva averne patita di fame per essere entusiasta di un lavoro simile! In mensa ti passavano un vinello, che ne bevevi due bicchieri e ti sentivi svenire. Era apprezzatissimo.


Noi chimici non eravamo più l'ultima ruota del carro; adesso i lavori più faticosi o più pericolosi li lasciavamo ai teruni. Li vedevi per strada, a mezzogiorno, accucciati alla araba, che mangiavano certi panini al prosciutto crudo che gridavano vendetta alla miseria (noi solo mortadella), le camicie sgargianti aperte sul petto peloso, la sera andavano a puttane e si addormentavano nelle cantine delle villette affittate dai nostri razzisti benpensanti, a mucchi.


Tornando al boom economico... Da quando portavo a casa una paga mia mamma delirava sempre più spesso di comprare una villetta con tanti fiori, l'orto e la capretta, non si rassegnava all'idea di vivere senza la speranza, almeno quella, di andarsene dall'appartamento del Cotonificio per il quale pagavamo un affitto quasi simbolico. A parte me tutta la famiglia lavorava in quel fottuto Cotonificio dove anche le paghe erano quasi simboliche. La spesa la facevamo allo spaccio alimentare del Cotonificio, le lenzuola le compravano allo spaccio tessuti del Cotonificio, l'orto di guerra era del Cotonificio, il CRAL pure. Perfino il paesaggio era del Cotonificio; la villa che vedevamo dalle nostre finestre era del Cotonificio; ci viveva il direttore della tessitura del Cotonificio con due bulldog e la figlia zitella, che ai suoi cani, per dolce, dava solo i savoiardi. Quello che non era del Cotonificio era del Meccanico. I padroni del Meccanico avevano più ville stile castello con parco recintato che parenti da alloggiarci.
3.
La vita di paese mi andava sempre più stretta. Si veniva a sapere tutto e non era poi un gran piacere. Per esempio: che il Domenico, quello che aveva messo una buona parola per farmi assumere alla Montecatini, da nove anni era dietro a sposarsi con la Piera. Intanto, d’accordo col parroco, la sua giunta avevano proibito costruzioni più alte di due piani in tutto il paese, per bloccare l'invasione dei terùni, i meridionali che arrivavano al nord a milioni.

Il parroco più che d'accordo era entusiasta; se gli abitanti raddoppiavano o addirittura decuplicavano, come stava succedendo tutt'attorno a Milano, l'arcivescovo poteva decidere di creare un'altra parrocchia e lui ci avrebbe smenato, ci avrebbe perso in prestigio e in dané. Il sindaco aveva visto che i terùni, anche quelli che al loro paese votavano per il verso giusto, una volta al nord si lasciavano incantare dai comunisti e i democristiani volevano minga perdere la maggioranza assoluta, che era così comoda.


Dicevano che il Domenico assomigliava un po' al cantante Achille Togliani, che le donne impazzivano quando faceva il notaio e, vestito con il mantello a ruota, cantava "Signorinella pallida, dolce dirimpettaia al quinto piano..." La perpetua, con cui era in cunfidensa, gli diceva: "Un bel umàsc, un omaccione come che sei te, vicesindaco e assessore all'edilizia poi, cosa che aspetti cosa a sposarti? Vai mica già per i 40?"


Per lo sfogo se la faceva con la Rosalinda, di cui mio padre diceva, in friulano: "E' brave, buine, sa fa di dut, (è brava, buona, sa fare di tutto), ma a une brute péchie, (ha un brutto difetto), bute un tik a putanise, (tende un po'...)". Sua sorella, quindi, era rovinata, poteva solo aspirare a un operaio meridionale.


Due anni prima il Domenico, appena trasferitosi in villetta, aveva affittato i suoi locali, situati nella contrada degli ebrei, a quattro ex contadini siciliani. Siccome non capivano niente dei pericoli che correvano, li avevano messi a lavorare sull’impianto dei gas tossici. Adesso, nella villetta, i suoi genitori stavano in cantina, lui dormiva al primo piano. A parte la sua stanza, il mobilio era fatto su nel cellophane; per il suo matrimonio non ci sarebbe stato neanche bisogno di spolverare. Sulle scale interne della sua villetta c'era pieno di cassette di pere, di cachi, tutta roba dei suoi alberi, con la frutta era a posto.

Le mele? Ma se era pieno le mele! E non era stato così scemo da comprarsi la macchina con le cambiali, come facevano in tanti, con addosso il mutuo della casa. Usava quella della ditta che il padrone gliela dava volentieri. "Assessore, quando che ci ha bisogno..." gli diceva. E anche la televisione... “Specia, specia... aspetta, che tra poco mettono fuori quella a colori, e poi la radio è così bella! Quando che c'è il festival ci sediamo intorno, tutta la famiglia, con il libretto delle canzoni. Però... anche San Remo non è più come una volta, - si lamentava. - Quest'anno era pieno di urlatori...! Quelli lì... tutta scena e basta."


La Rosalinda faceva tanto la moderna ma aveva solo due anni meno di lui, e con la scusa della digestione lenta esagerava col fernet. Dicevano che gli faceva le scenate, al Domenico, tipo: "Ho visto la tua gatta morta dal prestinaio. Si dà tante di quelle arie, quella lì, solo perché non fa segnare la spesa sul libretto come tutti gli altri... E non ha neanche le tette! Cosa ci farai a letto con una così poi, te che vai matto per le tette? Ma tanto lei non te la dà, resta vergine fino al matrimonio, e te, furbo, sei contento. Vedrai che bella sorpresa! Da sposate le gattemorte tirano fuori le unghie, comandano loro."


Ormai la Rosalinda poteva scordarsi di trovare un marito in paese, le parlavano dietro per via dei due amanti, uno taccagno, il Domenico, e uno generoso, il Dario, figlio di un mio vicino di casa; il papà del Dario da giovane andava al casino con il prete dell’oratorio femminile. Alla Rosalinda non andava giù che il suo Domenico sposasse la Piera, non riusciva a accettarlo. Invece a lui non dispiaceva che lei avesse un altro amante, così le costava di meno. Il suo ragionamento era: con più si costruiscono villette con più c’è bisogno di strade e di fognature e lui lavorava in una ditta di costruzioni stradali; con l’ultima delibera ci scappava l’aumento.


Il papà della sua fidanzata era morto due anni prima, di un colpo, privando la mamma della Piera della soddisfazione di assistere a una lunga agonia, il suo unico hobby. Lui aveva fatto la campagna d'Abissinia, lui, poi la Jugoslavia e la Germania… un miracolo se era tornato a casa vivo. Ma quelli che erano stati in guerra non duravano tanto: a lui era venuto il mal di cuore. Mia sorella maggiore, che era stata dalla mamma della Piera a imparare l’uncinetto, diceva che le due donne di sera mangiavano pane e latte e una fetta di mortadella e andavano a dormire presto per risparmiare sulla luce.

 Tiravano avanti coi lavori di cucito e di ricamo. Per fortuna, nelle case del Cotonificio l’affitto era simbolico e non erano ancora state sfrattate anche se non avevano più diritto di starci. Ma di andare in fabbrica non se ne parlava nemmeno, non stava bene per una giovane come la Piera, fidanzata con un vicesindaco. Del resto bastava sentirle, le operaie, per capire cosa succedeva in fabbrica. Se la Piera si lamentava che il Domenico non si decideva a fare le pubblicazioni sua mamma le rispondeva:”Io ho aspettato dodici anni, per via della guerra, e non mi sono mai lamentata. Che premura c’hai? Cosa credi? Non è mica tutto rose e fiori, dopo.”


La Piera aveva un fidanzato segreto, nel senso che non lo sapeva nemmeno lei; era andato volontario di guerra in Africa e aveva preso la malattia del sonno. Lei era “la ragazza dei suoi sogni”, un bel complimento, fatto da uno che anche di giorno se stava sveglio due minuti poi dormiva mezzora. E gli era andata perfino bene, al volontario. Suo cugino poliziotto, che a Adis Abeba aveva il compito di vigilare sulla purezza della razza italica, era tornato a casa con solo metà dell'organo; l'altra gliel'avevano spappolata i fratelli di una tredicenne etiope che aveva messo incinta. La Piera incontrava il sonnambulo quando andava allo spaccio alimentare del Cotonificio. Se c’era il sole lui pisolava su un muretto. Secondo la mamma della Piera, quello là, il sonnambulo, andava messo in manicomio a Bizzozero.


Pagamentu, - noi per esprimere contrarietà, disappunto, scarogna, invece di dire purtroppo, sfortunatamente... evocavamo il tragico atto del pagare - pagamentu… chiunque andasse allo spaccio alimentare tornava con l’idea di essere stato fregato da qualche parte, ma si risparmiava, quindi…


Di sera, quando uscivo sul ballatoio a fischiare nella nebbia, vedevo la Piera che andava in gabinetto a lavare i piatti. Nel gabinetto c'erano solo un lavandino, la turca e lo spazio per il mastello del bucato. D’inverno si gelava e il bagno bisognava farlo in cucina, arrangiandosi. Nelle case del Cotonificio tutti avevano il gabinetto sul ballatoio aperto, solo noi l’avevamo in casa. Siccome i gabinetti erano di fronte alla porta del nostro appartamento mio papa aveva ottenuto che il Cotonificio gli costruisse un muro dalla cucina alla turca, l’unico favore che aveva chiesto alla ditta subito dopo la guerra, quando i comunisti facevano ancora paura.
continua 

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