martes, 27 de septiembre de 2011

Messico: Dallo zapatismo alla barbarie (parte 2)


La dilagante narcoeconomia ha destrutturato l'istituzionalità messicana, propagando una pericolosa decomposizione sociale-Femminicidio, febbre porcina, squadroni della morte- La vita vale sempre meno- Verso l'annessione de facto agli Stati Uniti?
Antonio Frillici
   
Nella primavera del 2009 appare l’influenza H1N1, chiamata dapprima “influenza porcina” e poi “messicana”. È l’occasione per condurre un esperimento di manipolazione su tutto il territorio nazionale. In effetti, questa nuova influenza si rivelerà poco pericolosa provocando, secondo le stesse stime dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, meno morti dell’influenza classica. Ma quello che viene messo in opera per bloccare il contagio è del tutto nuovo. Viene propagato

 un allarmismo ingiustificato e si terrorizza la popolazione come se si trattasse della peste. Il potere fa esperimenti con la paura della gente, iniettando una overdose di terrore. Vengono proibiti gli assembramenti e inviati pressanti messaggi affinché tutti si muniscano di mascherine per evitare il contagio.


Viene disposta la chiusura di scuole e chiese, ma non della metropolitana né degli ae-
roporti. Tutti per strada dovrebbero essere imbavagliati, e guai a baciarsi, perché
il contagio sarebbe garantito. Le mascherine si rivelano perciò essere dei veri e
propri preservativi del dialogo.

A poco a poco l’allarmismo scema, anche perché al di fuori delle grandi città
nessuno usa le mascherine e ovunque fette consapevoli della popolazione conti-
nuano pubblicamente a baciarsi e ad abbracciarsi. Alla fine, l’esperimento fun-
ziona a metà, perché se da un lato il potere è riuscito a incutere paura, dall’altro
il popolo non si è fatto prendere dal panico e ha saputo resistere.
   8.
   Non tutti i poliziotti, non tutti i membri dell’esercito o della marina sono cor-
rotti, e ogni tanto devono scoprire i traffici di droga e arrestare i colpevoli. Il ca-
so più eclatante che io ricordi è il sequestro, avvenuto al largo di Puerto Escon-
dido, nel Pacifico, di un sottomarino tascabile “repleto de coca”. Lunghezza 10
metri, quattro membri d’equipaggio, fabbricato nella giungla colombiana e
riempito di cocaina.

   Se la coca rimane il prodotto più ricercato, il Messico è ormai un bazar di tut-
te le droghe possibili: marijuana e haschisch, oppio ed eroina, anfetamine ed
ecstasy...
   Anche culturalmente il lessico del narco è entrato a far parte della lingua
messicana, tanto che nel dizionario degli americanismi, pubblicato a Madrid lo
scorso autunno, compaiono parole come “levanton” (rapimento), “plomear”
(sparare), “pase” (dose), “ejecutar” (giustiziare). Per non parlare poi dei narco-
corridos, canzoni che narrano le gesta dei narcotrafficanti riprendendo la tradi-
zione classica dei corridos messicani. La differenza è che ogni tanto i cantanti
vengono uccisi dai gruppi rivali.

   Mentre i giornali messicani riportano quotidianamente le tristi cifre dei morti
ammazzati, sia in operazioni di polizia contro i cartelli sia in sparatorie fra gli
stessi narcos, all’estero le notizie al riguardo sono scarsissime. Se in Spagna,
per via dei legami linguistici e culturali esistenti tra i due Paesi, si sa qualcosa,
altrove (a cominciare dall’Italia) esiste un vero e proprio black-out informativo.
Si potrebbe pensare che esso sia finalizzato a salvaguardare il turismo interna-
zionale, ma vedremo che non si tratta solo di questo.

   9.
   Ovviamente, gli Stati Uniti non stanno a guardare. Ora si sa, grazie a un di-
spaccio rivelato da Wikileaks, che parte del traffico illegale di armi fu approvato
dal governo di Washington, nel quadro dell’azione segreta conosciuta come Ra-
pido y furioso. In questa sola occasione i narcos furono riforniti di duemila fuci-
li d’assalto. Con la Chuck Wagon, un’operazione condotta sotto la guida del
consigliere militare degli USA in Messico, la SEDENA (Secretaría de Defensa
Nacional) doveva invece essere aiutata a scoprire traffici di armi da guerra (mis-
sili, lanciamissili, esplosivi e quant’altro). Nonostante potessero richiedere alle
autorità messicane competenti tutte le informazioni necessarie, gli Stati Uniti
non riuscirono mai a identificare un solo trafficante di armi, a bloccare un solo
invio o a individuare una sola destinazione finale. Da parte messicana nessun
reclamo per quest’assoluta mancanza di risultati.

   Un altro aspetto che sicuramente interessa il governo degli Stati Uniti è il
traffico degl’immigrati centroamericani con destino finale Gringolandia. Qui
non si parla delle centinaia di messicani e centroamericani presi letteralmente a
fucilate dalle guardie di frontiera statunitensi, né dei “polleros” che, in cambio
di lauti compensi, organizzano il passaggio dei clandestini, talvolta abbando-
nandoli poi al loro destino. Si parla dei guatemaltechi, degli honduregni, dei
salvadoregni che scompaiono nell’attraversare il Messico, senza mai arrivare
alla frontiera nordamericana, risolvendo così le autorità statunitensi il problema
alla radice. 

I dati forniti dalle fonti ufficiali messicane sono molto inferiori alla
realtà: secondo l’INM (Instituto Nacional de Migración) nei primi dieci mesi
del 2010 ci sono stati 222 casi di rapimenti a danno di immigrati clandestini. In-
vece, secondo la Associazione Rete dei Comitati dei Migranti e Familiari del-
l’Honduras, “gli scomparsi aumentano giorno dopo giorno. Solo per quanto ri-
guarda l’Honduras, abbiamo una lista di 860 casi”. Se prima venivano usati per
essere sfruttati sessualmente o come schiavi, oggi vengono anche obbligati a de-
linquere, sicari che ammazzano prima di essere a loro volta ammazzati.
   
Il massacro di Tamaulipas, in cui nell’estate del 2010 furono uccisi 72 immi-
grati, in maggioranza dell’Honduras, fu un chiaro avvertimento. Chi vuole emi-
grare come clandestino ha più probabilità di morire che di farcela. Quando il 24
agosto furono trovati i loro corpi, Roberto Suarez, l’agente che seguiva il caso,
fu ucciso nello stesso luogo. Altro esempio emblematico è quello denunciato dal
sacerdote Solalinde Guerra, coordinatore della pastorale sull’immigrazione: il
16 dicembre 2010, soldati, poliziotti e agenti dell’INM assaltarono un treno su
cui viaggiavano 190 migranti centroamericani, che scomparvero nell’istmo di
Tehuantepec, tra Arriaga, in Chiapas, e Ciudad Ixtepec, in Oaxaca.

   Sarà per tutto questo che Hillary Clinton, durante la sua visita ufficiale in
Messico del gennaio 2011, affermò che “siamo sulla buona strada nella lotta
contro il narcotraffico”, dichiarandosi “impressionata dalla leadership di Cal-
derón”. Il quale per parte sua, all’inizio dell’aprile 2011, annunciava: “Le cose
andranno molto bene. Me lo ha detto un uccellino...”.
   10.
   Secondo Robert Mueller, direttore dell’FBI, la violenza in Messico è giunta a
livelli “senza precedenti” e inizia a colpire anche i funzionari statunitensi che
operano in quel Paese, come nel caso dell’uccisione a Ciudad Juárez di un’im-
piegata del consolato e di suo marito o nell’aggressione in cui è morto un agente
USA dell’Immigrazione e Dogana. “Le statistiche relative agli omicidi parlano
da sole. Gli ultimi due anni sono stati particolarmente funesti”. E perfino il de-
putato del PRI Caro Cabrera nota come la strategia della guerra al narcotraffico
si sia pervertita, con poliziotti che vanno in giro incappucciati realizzando estor-
sioni a danno dei cittadini.

   In un caso di rapina e violenza sessuale conclusosi senza morti, a Monterrey,
la connivenza della polizia fu ampiamente provata. Quando gli oltre cento clien-
ti poterono uscire dal ristorante Altata, teatro della rapina, dopo essere stati de-
rubati, con molte donne fatte spogliare e violentate, videro sorpresi che due au-
tomobili della polizia erano parcheggiate proprio lì davanti, con gli agenti a
bordo.

   Che non sia solo guerra di narcos, con il suo macabro susseguirsi di episodi
truculenti, lo dimostra il fatto che, quando amici e familiari delle vittime chie-
dono giustizia, spesso anche loro vengono uccisi. Il caso della famiglia Reyes
Salazar è agghiacciante. Questa tragedia cominciò nel 2008 quando fu ucciso il
figlio di Josefina Reyes Salazar, attivista dei diritti umani. L’appello della madre
per avere giustizia fu messo a tacere quando lei stessa venne assassinata in un
paesino vicino a Ciudad Juárez, il 3 gennaio 2010. Nell’agosto di quell’anno fu
ucciso Ruben, fratello di Josefina. Il 7 febbraio di quest’anno furono rapiti Ma-
ria Magdalena, Elías Reyes Salazar e sua moglie Luisa. I tre componenti della
famiglia furono ritrovati morti il 25 febbraio, con evidenti segni di tortura e un
cartello con su scritto: “È questa la giustizia che volete?”.

   Un altro caso impressionante è quello di Marisela Escobedo Ortiz. Nell’ago-
sto del 2008 a Ciudad Juárez viene assassinata sua figlia. Il colpevole, reo con-
fesso, viene liberato per vizi di procedura. Marisela inizia una campagna chie-
dendo giustizia, finché decide di piazzarsi davanti al palazzo del governo dello
Stato di Chihuahua, con un cartello che non lascia spazio ad ambiguità: “Se mi
uccidono, che lo facciano davanti al palazzo del governo, così le autorità si ver-
gogneranno”. E lì un sicario scende da un’automobile e la fredda. Il giorno del
funerale, la falegnameria del marito viene bruciata da un commando che rapisce
anche il fratello del proprietario. Il Tribunale dello Stato, per parte sua, dichiara
di non potere ancora mettere in relazione l’incendio e il rapimento con l’assas-
sinio di Marisela.

   Il 30 settembre 2010, ad Acapulco, un gruppo armato rapisce 20 lavoratori
che viaggiano a bordo di un autobus. Dopo un mese, si svolge una manifesta-
zione di un migliaio di parenti e amici a Morelia, città da dove provengono i ra-
piti. Alcuni testimoni dicono che a sequestrarli è stata la polizia, però non si fi-
dano a rilasciare dichiarazioni pubbliche o a sporgere denuncia, per paura di
rappresaglie. Pochi giorni dopo questa manifestazione, in una fossa comune
vengono ritrovati i corpi dei rapiti.

   11.
   Le uccisioni e i funerali si susseguono a ritmo incalzante. Alla fine di ottobre
del 2010, quando le bare dei 14 ragazzi rapiti a Ciudad Juárez erano ancora
aperte, un commando fece irruzione in un centro di disintossicazione a Tijuana:
mise in fila 13 ragazzi e li fucilò. Passarono un paio di giorni e 15 giovani ad-
detti a un autolavaggio furono assassinati. Di questi, 11 lavoravano lì nel conte-
sto di un programma di reinserimento sociale, essendo ex tossicomani. Il mes-
saggio era chiaro: non dovete smettere di drogarvi, continuate perché tanto mo-
rirete lo stesso. La barbarie era ormai diventata un fatto quotidiano. L’ineffabile
Calderón dichiarò che tra questi giovani molti erano legati al narcotraffico, ma
fu rapidamente zittito dal clamore suscitato da questa dichiarazione sconsidera-
ta.

    Tra i massacri avvenuti di recente, ricordiamo ancora quello di Cuernavaca,
all’inizio di aprile. Cinque giovani e due adulti vengono ritrovati morti all’inter-
no di un’automobile. Tra di loro il figlio del noto poeta Javier Sicilia, che inizia
subito a promuovere manifestazioni con lo slogan “Ni un muerto mas” (nem-
meno un altro morto). Dopo una settimana i militari, sospettati di essere impli-
cati negli omicidi, presentano il “colpevole”: il volto tumefatto, le unghie bru-
ciate, costui rilascia delle dichiarazioni, presto smentite dai fatti. L’ennesimo
capro espiatorio.

    Purtroppo è vero che il Messico ha un sistema educativo tra i peggiori di tutta
l’America Latina e che molti giovani hanno per prospettiva o quella di emigrare
negli Stati Uniti come clandestini o quella di lavorare in Messico per una salario
letteralmente da fame. L’unico futuro pare perciò essere quello di diventare un
narcotrafficante, con macchine, belle ragazze, armi, potere e, se non si è uccisi,
la possibilità di arricchirsi. Perciò il narcotraffico non ha problemi a reclutare
giovani e adolescenti. Emblematico il caso di El Ponchis, un quattordicenne la
cui occupazione era quella di tagliagola, dietro ordine dei boss. Quando fu arre-
stato a Cuernavaca, gli chiesero che cosa provasse quando ammazzava qualcu-
no. Rispose: “Siento feo” (è brutto). Se il narcotraffico non ha problemi di re-
clutamento, non altrettanto si può dire per la polizia, tanto che in molti Stati del
Nord, come Tamaulipas, Sinaloa o Nuevo Leon, non c’è più nessuno che voglia
fare il poliziotto.

    12.
    Ci sono due cartelli di narcotrafficanti che meritano un’attenzione particolare.
    Uno è quello della Familia Michoacana, attivo, come dice il nome, nello Sta-
to di Michoacan. Si tratta di un’organizzazione che ricorda la Mafia ai suoi al-
bori, perché, oltre a richiedere il pizzo, amministra la giustizia in modo efficace
ancorché sbrigativo. Dai tassisti agli artigiani, fino ai grandi produttori agricoli
o ai padroni dei locali notturni, tutti pagano per la protezione. Però quando
qualcuno ha un credito che non riesce a riscuotere o una donna viene picchiata
ferocemente dal marito, La Familia interviene. Nel dicembre 2010, questo car-
tello ricevette un duro colpo con l’uccisione da parte della polizia del suo capo
indiscusso, Nazario Moreno, detto El Más Loco, El Doctor, El Pastor, El Chayo
ecc. Dopo questo scontro a fuoco, durato fino all’alba, in cui morirono cinque
poliziotti, tre malavitosi e tre civili, i sostenitori di Nazario Moreno scesero in
piazza portando striscioni con su scritto: “Vogliamo la pace”, “Vogliamo lavoro,
non poliziotti”.

   L’altro cartello molto particolare è quello degli Zetas. Questa organizzazione
paramilitare è sempre implicata nelle azioni più efferate e nei rapimenti più
strani. Secondo una dichiarazione rilasciata dal viceministro degli Interni gua-
temalteco Mario Castañeda il 6 aprile 2011, membri dei corpi speciali dell’eser-
cito guatemalteco, conosciuti come Kaibiles, ricevono 5.000 dollari al mese per
addestrare uomini degli Zetas e anche per partecipare allo spaccio. Castañeda
afferma inoltre che il cartello ha rubato, in almeno tre occasioni, armi dalle ca-
serme. Secondo altre fonti, questo cartello sarebbe formato da ex (?) membri
delle forze speciali messicane del Grupo Aeromóvil de Fuerzas Especiales, ad-
destrato in counterinsurgency a Fort Benning (Georgia), e da ex (?) poliziotti
statali e federali.

   Il 17 dicembre 2010 un’autobomba esplose davanti alla sede della polizia del
comune di General Zuazua, in Nuevo Leon, provocando tre feriti. I cartelli del
Golfo e di Sinaloa rivendicarono l’attentato dichiarando che era rivolto contro i
sequestri: “Tutti sappiamo che i rapimenti sono commessi dagli stessi poliziotti
di Nuevo Leon, conosciuti come poli-zetas. Lo Stato di Nuevo Leon non garan-
tisce la sicurezza dei suoi cittadini; i rapimenti che non sono stati denunciati per
paura delle stesse autorità sono oltre mille “. La rivendicazione concludeva av-
vertendo che “sono pronte altre undici autobombe per rendere giustizia ai desa-
parecidos, perciò i poli-zetas e i funzionari corrotti sono avvisati”.
   In Michoacan i continui scontri tra La Familia e gli Zetas hanno provocato un
massiccio esodo dalle zone più violente.
   Infine , uno dei clandestini sopravvissuti al massacro di Tamaulipas già ricor-
dato, dichiarò che gli assassini erano Zetas, che avevano ucciso le vittime per-
ché si erano rifiutate di arruolarsi nella loro organizzazione.

   13.
   La violenza colpisce ovunque. Molti sono uccisi da proiettili vaganti. Altri a
posti di blocco dei militari, che alterano poi la scena dei fatti. Perfino otto cac-
ciatori, arrestati perché secondo il procuratore di Zacatecas stavano cacciando
illegalmente, furono consegnati a dei narcotrafficanti, che li fucilarono. Uffi-
cialmente, sono 400 i comuni controllati dai cartelli, ma questa è solo la punta
dell’iceberg.

    Ciudad Juárez, nello Stato di Chihuahua, alla frontiera con gli Stati Uniti, è
stata il laboratorio di quanto sarebbe poi successo nel resto del Messico. Già tri-
stemente famosa alla fine degli anni Novanta per gli omicidi di donne, è anche
la prima città dove sia stata applicata la “dottrina Calderón” nella guerra al nar-
cotraffico con l’invio dell’esercito. I morti ammazzati sono aumentati in manie-
ra impressionante, perfino le bambine vengono prese a fucilate, come il 23 feb-
braio 2011, quando due furono uccise e altre quattro ferite. Secondo Gustavo de
la Rosa, rappresentante della Commissione Statale dei Diritti Umani, a Ciudad
Juárez sono state segnalate dieci “zone di sterminio”, dove i gruppi criminali dal
2009 hanno eliminato 200 famiglie.

    14.
    Ho cercato di spiegare come si sia potuti giungere a questa drammatica situa-
zione e quali siano le radici di tanta violenza. Ma perché?
    Il Messico, a partire dal 1994 e per oltre un decennio, è stato all’avanguardia
delle lotte nel mondo e forse l’unico Paese in cui fosse all’ordine del giorno la
questione della rivoluzione sociale. Da Tepoztlán al Chiapas, da Oaxaca ad
Atenco, dalla lotta dei Mazahua per l’acqua a quella delle popolazioni che si
opponevano alla costruzione dell’autostrada Siglo XXI, era un susseguirsi di
proteste, istanze di trasformazione e tentativi pratici di cambiamento. Per la cu-
pola che sta al potere in Messico, ma anche negli Stati Uniti e nel resto del
mondo, era imperativo fermare questo variegato e ricchissimo movimento so-
ciale. A tutti i costi. Oggi, questa stessa cupola internazionale copre con un au-
tentico black-out informativo quanto accade in questo straordinario Paese.

    Conoscendo l’eccezionale coraggio dei messicani, un attacco frontale da par-
te del potere sarebbe sfociato nella guerra civile. Meglio quindi favorire una
massiccia diffusione della droga e alimentare un feroce conflitto fra i vari cartel-
li. E allora, ecco la militarizzazione del Paese, ufficialmente necessaria per
combattere la violenza dei narcos, ma che in realtà la alimenta e la gestisce per
consolidare il potere.



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