DOPO il FALLIMENTO del PROIBIZIONISMO
Fabrizio Casari Il Senato uruguayano ha votato a maggioranza la legge che permette il
consumo libero di marijuana e che, contestualmente, autorizza lo Stato a
produrla e distribuirla. Stabilisce quote massime per la coltivazione
privata e modalità della sua distribuzione attraverso la rete delle
farmacie pubbliche e private, annunciando comunque la formazione di una
autorità di controllo ad hoc e un registro
dei consumatori con le più
alte garanzie sul riserbo dei dati e l’osservanza rigida delle norme che
tutelano la privacy già in vigore.Il presidente José Mujica ha
ribadito che l'obiettivo della riforma non è "diventare un Paese del
fumo libero", ma piuttosto tentare un “esperimento al di fuori del
proibizionismo, che è fallito". L’intenzione del governo di Montevideo,
come più volte ripetuto dallo stesso Presidente Mujica, è quella di
strappare al mercato illegale e, dunque, alle organizzazioni criminali
che lo gestiscono, il traffico di sostanze stupefacenti a bassissimo
rischio per la salute dei consumatori.
Proprio per sfidare le organizzazioni criminali, nell’intento
evidente di affondarne il business, il prezzo pubblico della marijuana
venduta legalmente nei circuiti farmaceutici sarà di un dollaro al
grammo, concorrenziale quindi al prezzo richiesto dai venditori
illegali. La destra si è opposta ed ha annunciato una raccolta di firme
per indire un referendum abrogativo della legge appena votata, ma ad
ogni modo l’impatto politico e culturale della legge è di assoluto
spessore.
E’ infatti uno schiaffo violento alle politiche
proibizioniste decise dagli Stati Uniti e inoculate via endovena al
resto del mondo. In primo luogo sul piano culturale, perché riconosce il
diritto individuale al consumo mentre colpisce lo spaccio illegale, con
ciò evidenziando due profili antitetici che una scellerata concezione
illiberale ha voluto ad ogni costo unificare. In secondo luogo perché
chiude con la concezione del diritto all’uso del proprio corpo
interpretata solo come una devianza sociale alla quale opporre
repressione.
Sul piano politico l’importanza delle legge uruguayana è assoluta,
giacché mette in discussione oltre vent’anni di concezione
proibizionista che ha recato danni gravissimi. Il fallimento delle
politiche proibizioniste, richieste manu militari proprio dal paese
primo al mondo per consumo di oppiacei, è stato del resto lo sfondo
ideologico e politico di una politica internazionale destinata alla
riaffermazione del ruolo di gendarme mondiale statunitense. La loro
attuazione ha tra l’altro permesso al governo USA di inserire la sua DEA
in ogni paese e così controllare dall’interno e dall’esterno le
attività di prevenzione e repressione delle diverse polizie
internazionali.
L’incapacità
di far rispettare le leggi proibizioniste all’interno degli Stati Uniti
si è quindi trasformata nell’invasione delle legislazioni interne dei
paesi dai quali le sostanze oppiacee arrivavano negli stessi Stati
Uniti. Nemmeno le prese di posizione di diversi economisti e sociologi,
che hanno regolarmente evidenziato l’incongruenza delle politiche
proibizioniste e il loro impatto economico negativo, sono servite ad
aprire un dibattito approfondito sul tema, sempre più bandiera
ideologica e sempre meno ragionamento politico.
Persino Milton Friedman, economista e fondatore della scuola dei
Chicago Boys, icona liberista del turbo capitalismo finanziario,
ricordava amaramente i drammatici costi sociali delle politiche
proibizioniste, visto che, in conseguenza di questa guerra, gli Stati
Uniti hanno moltiplicato per otto la propria popolazione carceraria,
principalmente popolazione nera e latina con risorse economiche
limitatissime. Lo stesso incremento di pene accessorie per consumatori e
spacciatori, mentre non ha svolto nessuna funzione deterrente, è
servito a far lievitare verso l’alto il prezzo del prodotto e aumentando
così ulteriormente il profitto della rete illegale che lo controlla.
Serve
quindi un nuovo approccio. E’ chiaro infatti che un prodotto per il
quale i consumatori sono centinaia e centinaia di milioni al giorno
l’approccio no può essere repressivo e va invece affrontato con lucida
laicità. E, in una lettura attenta del fenomeno, la questione della
produzione e distribuzione dello stesso è questione primaria. Ove fosse
stata garantita la vendita in forma legale, nessuno si sarebbe rivolto
alla micro o macro criminalità per procurarsela.
Tenendo invece il consumo di marijuana nell’area illegale, il prezzo
del prodotto è cresciuto a dismisura e i proventi della filiera sono
stati appannaggio esclusivo dei cartelli internazionali. Al punto che i
profitti delle organizzazioni criminali sono spaventosamente cresciuti,
rendendo possibili anche operazioni gigantesche di riciclaggio di denaro
sporco, cui ogni struttura organizzata accede per costruire poderosi
accantonamenti di denaro non tracciabile ma spendibile.
Basti
pensare a come i narcos colombiani prima e quelli messicani ora, ormai
giunti alla vetta della piramide delle organizzazioni criminali
mondiali, abbiano costruito proprio sul business degli oppiacei il
retroterra organizzativo e finanziario che li ha progressivamente
trasformati da bande criminali in vere e proprie organizzazioni statuali
parallele, capaci di combattere armi alla mano contro lo Stato,
ridimensionandone persino il monopolio della forza, per poi addirittura
innescare un processo di sostituzione dello Stato stesso (vedi Messico).
Come ha giustamente affermato lo scrittore uruguayano Eduardo Galeano,
“nella guerra alla droga gli americani c’hanno messo le narici,
l’America Latina i cadaveri”.
Del
resto, mantenere in piedi una legislazione proibizionista è un business
enorme e non solo le organizzazioni criminali in senso stretto hanno
tratto profitto dall’illegalità del mercato. Durante gli anni ’80 gli
Stati Uniti finanziarono con i proventi del traffico di droga ed armi la
guerra d’aggressione al Nicaragua, finanziando e armando i terroristi
Contras pur con il voto del Congresso che limitava fortemente l’utilizzo
dei fondi pubblici.
Idem dicasi per diverse altre operazioni, tutte “covert action”
implementate senza apparentemente risultare contabilmente registrate nei
bilanci ufficiali della CIA e del Pentagono. Chi finanziava e come le
operazioni del valore di centinaia di milioni di dollari?
La fine
della guerra fredda e della “minaccia comunista” aveva bisogno di nuovi
nemici per continuare ad alimentare l’apparato militar-industriale e
l’industria dello spionaggio internazionale con il quale gli Stati Uniti
hanno voluto mantenere il controllo militare e politico sul pianeta.
Sono nati così i nuovi fenomeni del terrore internazionale da vendere
all’opinione pubblica: l’Islam radicale, il narcotraffico, la violazione
dei diritti umani e via elencando. Grazie alla politiche proibizioniste
i consumatori si sono moltiplicati, ma l’industria che vive
sull’illegalità del fenomeno si è ingigantita.
E se si vuol
ritenere che la presenza statunitense in Afghanistan sia destinata a
combattere i Talebani, sarà comunque utile tenere a mente come il paese
asiatico sia il primo produttore al mondo di oppiacei e che, nonostante
la presenza delle forze armate USA la produzione è enormemente
aumentata.
Dal momento che la capacità operativa dei trafficanti non può essere
rimasta immune dalla presenza di migliaia i soldati occidentali in uno
scenario di guerra, due sono i casi allora: o la forza militare è
impotente contro il fenomeno, o serve - tra e altre motivazioni -
proprio a garantire la direzione precisa che i proventi devono prendere.
E, come si dice, seguendo il denaro s’indovina il cammino.
fonte: altrenotizie.org
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