martes, 24 de diciembre de 2013

Uruguay, la marijuana è libera

DOPO il  FALLIMENTO del PROIBIZIONISMO

Fabrizio Casari Il Senato uruguayano ha votato a maggioranza la legge che permette il consumo libero di marijuana e che, contestualmente, autorizza lo Stato a produrla e distribuirla. Stabilisce quote massime per la coltivazione privata e modalità della sua distribuzione attraverso la rete delle farmacie pubbliche e private, annunciando comunque la formazione di una autorità di controllo ad hoc e un registro
dei consumatori con le più alte garanzie sul riserbo dei dati e l’osservanza rigida delle norme che tutelano la privacy già in vigore.Il presidente José Mujica ha ribadito che l'obiettivo della riforma non è "diventare un Paese del fumo libero", ma piuttosto tentare un “esperimento al di fuori del proibizionismo, che è fallito". L’intenzione del governo di Montevideo, come più volte ripetuto dallo stesso Presidente Mujica, è quella di strappare al mercato illegale e, dunque, alle organizzazioni criminali che lo gestiscono, il traffico di sostanze stupefacenti a bassissimo rischio per la salute dei consumatori.

Proprio per sfidare le organizzazioni criminali, nell’intento evidente di affondarne il business, il prezzo pubblico della marijuana venduta legalmente nei circuiti farmaceutici sarà di un dollaro al grammo, concorrenziale quindi al prezzo richiesto dai venditori illegali. La destra si è opposta ed ha annunciato una raccolta di firme per indire un referendum abrogativo della legge appena votata, ma ad ogni modo l’impatto politico e culturale della legge è di assoluto spessore.



E’ infatti uno schiaffo violento alle politiche proibizioniste decise dagli Stati Uniti e inoculate via endovena al resto del mondo. In primo luogo sul piano culturale, perché riconosce il diritto individuale al consumo mentre colpisce lo spaccio illegale, con ciò evidenziando due profili antitetici che una scellerata concezione illiberale ha voluto ad ogni costo unificare. In secondo luogo perché chiude con la concezione del diritto all’uso del proprio corpo interpretata solo come una devianza sociale alla quale opporre repressione.

Sul piano politico l’importanza delle legge uruguayana è assoluta, giacché mette in discussione oltre vent’anni di concezione proibizionista che ha recato danni gravissimi. Il fallimento delle politiche proibizioniste, richieste manu militari proprio dal paese primo al mondo per consumo di oppiacei, è stato del resto lo sfondo ideologico e politico di una politica internazionale destinata alla riaffermazione del ruolo di gendarme mondiale statunitense.  La loro attuazione ha tra l’altro permesso al governo USA di inserire la sua DEA in ogni paese e così controllare dall’interno e dall’esterno le attività di prevenzione e repressione delle diverse polizie internazionali.

L’incapacità di far rispettare le leggi proibizioniste all’interno degli Stati Uniti si è quindi trasformata nell’invasione delle legislazioni interne dei paesi dai quali le sostanze oppiacee arrivavano negli stessi Stati Uniti. Nemmeno le prese di posizione di diversi economisti e sociologi, che hanno regolarmente evidenziato l’incongruenza delle politiche proibizioniste e il loro impatto economico negativo, sono servite ad aprire un dibattito approfondito sul tema, sempre più bandiera ideologica e sempre meno ragionamento politico.

Persino Milton Friedman, economista e fondatore della scuola dei Chicago Boys, icona liberista del turbo capitalismo finanziario, ricordava amaramente i drammatici costi sociali delle politiche proibizioniste, visto che, in conseguenza di questa guerra, gli Stati Uniti hanno moltiplicato per otto la propria popolazione carceraria, principalmente popolazione nera e latina con risorse economiche limitatissime. Lo stesso incremento di pene accessorie per consumatori e spacciatori, mentre non ha svolto nessuna funzione deterrente, è servito a far lievitare verso l’alto il prezzo del prodotto e aumentando così ulteriormente il profitto della rete illegale che lo controlla.

Serve quindi un nuovo approccio. E’ chiaro infatti che un prodotto per il quale i consumatori sono centinaia e centinaia di milioni al giorno l’approccio no può essere repressivo e va invece affrontato con lucida laicità. E, in una lettura attenta del fenomeno, la questione della produzione e distribuzione dello stesso è questione primaria. Ove fosse stata garantita la vendita in forma legale, nessuno si sarebbe rivolto alla micro o macro criminalità per procurarsela.


Tenendo invece il consumo di marijuana nell’area illegale, il prezzo del prodotto è cresciuto a dismisura e i proventi della filiera sono stati appannaggio esclusivo dei cartelli internazionali. Al punto che i profitti delle organizzazioni criminali sono spaventosamente cresciuti, rendendo possibili anche operazioni gigantesche di riciclaggio di denaro sporco, cui ogni struttura organizzata accede per costruire poderosi accantonamenti di denaro non tracciabile ma spendibile.

Basti pensare a come i narcos colombiani prima e quelli
messicani ora, ormai giunti alla vetta della piramide delle organizzazioni criminali mondiali, abbiano costruito proprio sul business degli oppiacei il retroterra organizzativo e finanziario che li ha progressivamente trasformati da bande criminali in vere e proprie organizzazioni statuali parallele, capaci di combattere armi alla mano contro lo Stato, ridimensionandone persino il monopolio della forza, per poi addirittura innescare un processo di sostituzione dello Stato stesso (vedi Messico). Come ha giustamente affermato lo scrittore uruguayano Eduardo Galeano, “nella guerra alla droga gli americani c’hanno messo le narici, l’America Latina i cadaveri”.

Del resto, mantenere in piedi una legislazione proibizionista è un business enorme e non solo le organizzazioni criminali in senso stretto hanno tratto profitto dall’illegalità del mercato. Durante gli anni ’80 gli Stati Uniti finanziarono con i proventi del traffico di droga ed armi la guerra d’aggressione al Nicaragua, finanziando e armando i terroristi Contras pur con il voto del Congresso che limitava fortemente l’utilizzo dei fondi pubblici.


Idem dicasi per diverse altre operazioni, tutte “covert action” implementate senza apparentemente risultare contabilmente registrate nei bilanci ufficiali della CIA e del Pentagono. Chi finanziava e come le operazioni del valore di centinaia di milioni di dollari?

La fine della guerra fredda e della “minaccia comunista” aveva bisogno di nuovi nemici per continuare ad alimentare l’apparato militar-industriale e l’industria dello spionaggio internazionale con il quale gli Stati Uniti hanno voluto mantenere il controllo militare e politico sul pianeta. Sono nati così i nuovi fenomeni del terrore internazionale da vendere all’opinione pubblica: l’Islam radicale, il narcotraffico, la violazione dei diritti umani e via elencando. Grazie alla politiche proibizioniste i consumatori si sono moltiplicati, ma l’industria che vive sull’illegalità del fenomeno si è ingigantita.

E se si vuol ritenere che la presenza statunitense in Afghanistan sia destinata a combattere i Talebani, sarà comunque utile tenere a mente come il paese asiatico sia il primo produttore al mondo di oppiacei e che, nonostante la presenza delle forze armate USA la produzione è enormemente aumentata.

Dal momento che la capacità operativa dei trafficanti non può essere rimasta immune dalla presenza di migliaia i soldati occidentali in uno scenario di guerra, due sono i casi allora: o la forza militare è impotente contro il fenomeno, o serve - tra e altre motivazioni - proprio a garantire la direzione precisa che i proventi devono prendere. E, come si dice, seguendo il denaro s’indovina il cammino.
fonte: altrenotizie.org

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